Coronavirus, sui morti e sui contagi i conti non tornano

Secondo diversi studi, i dati ufficiali sottostimano i numeri della pandemia in Italia
Istituto Cattaneo: «I decessi sono almeno il doppio». Ispi: «Gli infetti potrebbero essere dieci volte maggiori». Non conosciamo il reale andamento dell'epidemia perché non testiamo i casi sospetti, ma i laboratori sono in difficoltà: «Non possiamo fare di più». I test sierologici sono una soluzione?

Ogni giorno che passa, sempre più fonti sostengono che il numero ufficiale di morti e contagi da Covid-19 in Italia sia largamente sottostimato. In altre parole, la pandemia avrebbe contagiato e ucciso molte più persone di quelle riportate dal bollettino della Protezione civile. C’è soprattutto un dato che non torna: il tasso di letalità che ad aprile è arrivato a toccare il 12 per cento. Questo numero, preso così, significa che a morire sarebbe più di un contagiato su dieci: insomma, sembra troppo alto per essere affidabile dato che in altri Paesi è molto più basso (circa dall’1 al 5 per cento). Diversi studi (Istat, Ispi, InTwig, Doxa) affermano che il tasso di letalità è distorto perché le persone contagiate, in realtà, sono molto più di quante pensiamo. A seconda delle stime, i contagi potrebbero essere 10-15 volte maggiori rispetto a quelli ufficiali, o anche di più. I morti, invece, potrebbero essere fino al triplo a seconda della regione. Uno dei motivi per cui i dati ufficiali sottostimano i contagi è che non vengono fatti abbastanza tamponi (anche se l’Italia ne fa più di altri Paesi), e questo succede perché tanti laboratori sono in difficoltà o lavorano già al massimo delle loro capacità.

A chi si dovrebbe fare il test – Secondo due diverse circolari del ministero della Salute rimaste in vigore fino al 3 aprile, doveva essere sottoposto a tampone chiunque presentava un’infezione respiratoria acuta – cioè «l’insorgenza improvvisa di almeno uno tra i seguenti segni o sintomi: febbre, tosse e difficoltà respiratoria» – senza una causa in grado di spiegare totalmente quei sintomi. In altri termini: nel dubbio andava fatto il tampone. Queste indicazioni erano in linea con quelle ribadite il 16 marzo dal capo dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), Tedros Adhanom Ghebreyesus: «Non possiamo fermare questa pandemia – aveva detto – se non sappiamo chi viene contagiato e chi no. Non si può spegnere un fuoco se si è bendati. Abbiamo un semplice messaggio per tutti i paesi: fate i test, fate i test, fate i test».

Regole inapplicabili – Il primo aprile, confermando quanto detto poco prima dal capo della Protezione civile Angelo Borrelli, il presidente della Società italiana di pediatria Alberto Villani aveva dichiarato: «A coloro che hanno realmente bisogno del tampone, il tampone viene eseguito. Quindi se non viene eseguito evidentemente non c’è l’indicazione a farlo». A marzo, però, la situazione in molti ospedali e laboratori era critica – in particolare in Lombardia – e seguire le raccomandazioni ufficiali era di fatto impossibile. Oggi le cose non sono cambiate molto e da settimane il tampone non viene fatto a moltissime persone sintomatiche: una cosa confermata da diverse testimonianze, studi e dichiarazioni di esperti, analisti, medici, sindaci, infermieri e persone comuni. Alla luce di questo, abbiamo chiesto a un medico dell’ospedale San Matteo di Pavia – che preferisce restare anonimo – se a marzo i tamponi venissero eseguiti su tutti i pazienti con infezione respiratoria acuta: ha risposto con un laconico «no».

Il capo della Protezione civile, Angelo Borrelli, durante una conferenza stampa

Cosa dicono i numeri – A contraddire il numero ufficiale di decessi da Covid-19 sono soprattutto i dati sulla mortalità forniti dall’Istat a fine marzo. Questi dati fanno riferimento a 1.080 comuni italiani (per un totale di 12,3 milioni di abitanti) e sono stati analizzati dall’Istituto di ricerche Cattaneo. Gli studiosi hanno confrontato le morti registrate in un mese di coronavirus (21 febbraio-21 marzo 2020) con il numero medio di decessi avvenuti nello stesso mese nei cinque anni precedenti (2015-2019). Questi sono i risultati:

• Decessi quest’anno: 19.870
• Media dei decessi negli anni precedenti: 11.130
• Differenza tra i due numeri: 8.740

Ora, visto che la mortalità è un dato piuttosto stabile nel tempo, secondo i ricercatori questi 8.740 morti in più sono «riconducibili al coronavirus». Peccato che i decessi riportati dalla Protezione civile, nello stesso periodo e in tutta Italia, fossero soltanto 4.825, all’incirca la metà. In sintesi, l’Istituto Cattaneo afferma che i morti da coronavirus potrebbero essere il doppio o anche di più. Secondo i dati Istat, ad esempio, nella città di Bergamo la mortalità è aumentata del 266 per cento. È quindi probabile che molte persone siano decedute nelle proprie abitazioni o nelle case di riposo senza aver fatto il test, soprattutto in Lombardia.

Quanti sono i contagi, allora? – Secondo l’Istituto per gli studi di politica internazionale, il numero di persone contagiate potrebbe essere dieci volte maggiore rispetto al dato ufficiale, con una forbice che va da 1,1 milioni a 3,7 milioni di casi attivi. Lo stesso Borrelli ha ritenuto «credibile» questa stima. Ma ci sono anche ipotesi peggiori: secondo un’indagine Doxa, i contagiati potrebbero essere sei milioni, di cui un milione soltanto in Lombardia, ovvero circa il 10 per cento della popolazione italiana (stima in linea con una terza ricerca condotta dall’Imperial College di Londra). Il 7 aprile Giovanni Rezza, dirigente di ricerca dell’Istituto superiore di sanità, ha detto che «la sottostima riguarda tutti i Paesi, tant’è vero che per ogni caso riportato ci sono magari dieci persone infette». Poi, ha spiegato che «la sottostima della mortalità è una cattiva notizia, mentre quella degli infetti è buona perché vuol dire molte più persone hanno superato la malattia. Il problema rimane arginare il contagio».

Perché non si fanno i tamponi – Fare test a tutte le persone sintomatiche, come raccomandato dall’Oms, è difficile. Farli a tutte quelle asintomatiche è impossibile. La ragione principale è che su 155 laboratori italiani capaci di analizzare tamponi Covid-19, molti lavorano alla loro massima capacità e diversi hanno lamentato problemi nel reperire reagenti chimici. Abbiamo sentito la dottoressa Laura Peroni, del laboratorio degli Spedali civili di Brescia: «Noi, come altri laboratori, stiamo lavorando 24 ore al giorno, tutti i giorni. Siamo quaranta persone e non possiamo fare più di così».

Il laboratorio di microbiologia dell’ospedale San Matteo di Pavia (Claudio Furlan/LaPresse)

Conseguenze – Preso atto delle difficoltà dei laboratori, il 3 aprile il ministero della Salute ha emanato una circolare in cui afferma che «se la capacità di esecuzione dei test è limitata, tutti gli altri individui che presentano sintomi possono essere considerati casi probabili e isolati senza test supplementari». In pratica, ha riconosciuto che i laboratori non riescono a fare tutti i tamponi prescritti dall’Oms e che, di conseguenza, migliaia di casi sospetti non vengono testati. Tutto questo è un problema per due motivi: il primo è che senza test è impossibile isolare i malati dai sani e spezzare la catena del contagio. Il secondo è che senza dati affidabili non conosciamo l’andamento reale della pandemia e quindi è più difficile prendere le decisioni migliori per la collettività.

Soluzioni a metà – Per conoscere meglio la curva della pandemia, uno strumento efficace alternativo al tampone potrebbe essere quello dei test sierologici: in pratica, con una goccia di sangue si può sapere se un individuo ha sviluppato gli anticorpi al Covid-19 che gli consentono di non ammalarsi di nuovo (quindi che è stato contagiato ed è guarito). Il risultato arriva in un’ora e si potrebbero fare circa 500 mila esami al giorno. Potrebbe essere la base per la cosiddetta patente di immunità: consente di conoscere la percentuale della popolazione esposta al virus senza dover fare il tampone. Ad oggi, ci sono sono diversi tipi di test: uno di questi è stato studiato con esito positivo dal Politecnico San Matteo di Pavia e la multinazionale DiaSorin afferma di essere pronta al lancio sul mercato entro fine aprile. Ma ci sono ancora dei dubbi sulla loro affidabilità. L’Associazione microbiologi clinici ha dichiarato che questi test «non sono, ad oggi, affatto raccomandati per l’individuazione dei casi, dato che la comparsa degli anticorpi si sviluppa solo 7-14 giorni dall’infezione, che la positività non è rilevabile in tutti i pazienti ricoverati e che i dati (ancora pochi) nei pazienti guariti non sono interpretabili». Insomma: dobbiamo spegnere un fuoco, ma dopo due mesi siamo ancora, per lo più, bendati.

Autore

Arnaldo Liguori

Nato a Genova nel 1992. Laurea triennale in Scienze Politiche. Laurea magistrale in Mass Media e Politica all'Università di Bologna, con una tesi di ricerca sulla disinformazione online in Italia. Ha svolto un periodo Erasmus a Vilnius, in Lituania. Oggi è giornalista praticante presso la Scuola di Giornalismo Radiotelevisivo di Perugia.