«Ora l’Italia si converta per sempre al telelavoro»

Il sociologo Domenico De Masi si batte da decenni per promuovere lo smart working
«La pandemia l'ha reso una necessità, ma i suoi vantaggi sono innumerevoli e riguardano tutti»

Quando oggi sente parlare di smart working, Domenico De Masi sorride fra l’amaro e il soddisfatto. Di telelavoro, o lavoro agile, o lavoro da casa («anzi, da ovunque»), il celebre sociologo è un convinto sostenitore da quarant’anni. Da quando, cioè, praticamente questo tema non esisteva. Nel 1969 ha organizzato il primo seminario sull’argomento. Vent’anni dopo ha fondato la Società Italiana Telelavoro (Sit), e con lei ha pubblicato nel 1993 il più approfondito studio italiano in materia.
Professore, ci voleva il Coronavirus per riscoprire questa pratica?
«Non è una riscoperta, ma una scoperta, perché in Italia il telelavoro non è mai stato davvero sfruttato. Quando ho cominciato a proporlo ero convinto che sarebbe stato immediatamente adottato dalle aziende, corteggiato dai lavoratori e approvato dai sindacati. Eppure non è andata così».
Perché ha sposato la battaglia dello smart working?
«Perché i vantaggi sono veramente innumerevoli. In primo luogo è un’opportunità per il lavoratore. Gli consente di risparmiare tempo, denaro ed energie, di organizzarsi secondo i suoi bio-ritmi, di avere maggiori rapporti con la famiglia, con il quartiere, col vicinato, con gli amici. E poi è anche un vantaggio per la città, perché riduce il traffico, lo smog, le spese per la manutenzione stradale e per molti servizi».
E per le aziende?
«Anche per loro, assolutamente. Rende meno necessario gestire uffici costosi, riduce la micro-conflittualità e aumenta la produttività fra il 15 e il 20%».
Benefici per tutti, insomma. Eppure è rimasto un metodo meno che residuale.
«Il motivo è sostanzialmente uno: il capo impedisce il telelavoro per una visione antiquata e sgangherata del potere, un potere da esercitare sulla groppa del dipendente attraverso la contiguità fisica. E poi c’è un’ancestrale e generale ostilità ai cambiamenti».
Adesso la quarantena collettiva lo ha reso una necessità.
«Cito dei numeri: in Italia, su 23 milioni di lavoratori dipendenti appena 500mila usano abitualmente lo smart working. Oggi, con l’emergenza, sono diventati otto milioni, e almeno altri due milioni svolgono mansioni potenzialmente telelavorabili. Il virus sta facendo fare rapidamente e in modo raffazzonato quello che si poteva fare da tempo e bene. Ma meglio di niente».
Crede che durerà anche dopo l’emergenza?
«Lo spero. Mi auguro che questa conversione diffusa, sia pure avvenuta controvoglia, convinca i dipendenti e le aziende che il telelavoro non solo è possibile, ma è vantaggioso. Certo, ora l’uso è anomalo, perché di questi tempi il telelavoratore non può uscire di casa, quindi può riportarne l’impressione che si tratti di una prigionia. Ma la prigionia deriva dal virus, non dal telelavoro».
Non c’è il rischio che lo smart working faccia sconfinare il lavoro oltre i suoi tempi normali, rubando troppo alla vita?
«Su questo ci sono molte ricerche in tutto il mondo e dicono che non succede. O meglio, dopo una prima fase in cui il lavoratore è preso da un’ansia da prestazione, poi capisce che può fare in cinque ore quello che in azienda faceva in otto, e quindi che può avere molto tempo libero in più. Sia perché evita l’andirivieni del pendolarismo, sia perché a casa, al bar, al mare o dove vuole lui, può fare molto più in fretta quello che in ufficio svolgeva secondo liturgie che facevano perdere tempo, che stressavano, che annoiavano».
Seconda obiezione: lo smart working, eliminando la vicinanza fra colleghi, potrebbe renderli meno inclini a rivendicare i propri diritti e a condividere i problemi.
«È ovvio che oltre al telelavoro occorre il telesindacato. Anche il sindacato deve acquisire una grande dimestichezza con i sistemici informatici. Il sindacato può arrivare a casa del lavoratore in qualsiasi momento, così come ci arriva il capo dell’azienda. Pensiamo a quanti flash mob oggi vengono organizzati su Internet, anche dai ragazzini: la Rete offre una possibilità in più pure rispetto alla rivendicazione dei diritti. Greta ha smosso il mondo intero tramite Internet. Il fatto di lavorare ognuno a casa propria, poi, potrebbe aumentare il desiderio del singolo di partecipare alle manifestazioni di gruppo».
Questa fase drammatica cos’altro può portare di buono alla società?
«In primo luogo ci fa capire quante cose inutili facevamo prima. Nel caso del telelavoro dimostra che gli spostamenti, quando non sono necessari, fanno perdere tempo, non sono socializzazione ma stress: nelle metropolitane, negli autobus, appesantendo tutti i servizi pubblici e dovendo patire tutti i difetti dei trasporti».
C’è anche una riscoperta della lentezza?
«Non c’è il minimo dubbio. Vengono percepiti i vantaggi di quelli che noi sociologi chiamiamo bisogni radicali: introspezione, amore, amicizia, gioco, bellezza, convivialità. Bisogni che avevamo represso per mettere al primo posto i bisogni quantitativi o alienati: potere, possesso, denaro».
Finora il tessuto sociale sta tenendo. Ma teme una depressione collettiva nel prossimo futuro?
«Noi abbiamo un vademecum straordinario: La peste di Camus, capolavoro della letteratura. Lì sono descritte in modo profetico le varie tappe che attraversa il morbo e le reazioni che suscita. Alla fine avremo una fase euforica. Però tutto questo non finirà di colpo. Abbiamo dovuto assuefarci al virus all’improvviso ma non finirà altrettanto velocemente, se ne andrà con calma e quindi scivoleremo quasi senza accorgercene in quella che chiamavamo normalità».
Come giudica la gestione pubblica della pandemia?
«Dobbiamo essere tolleranti nei confronti dei governanti, perché stanno agendo senza avere un minimo di manuale. L’ultima pandemia è avvenuta nel 1919. Eravamo preparati a terremoti e terrorismo, ma quello che sta succedendo era fuori da ogni previsione, e io mi occupo da sempre di studi previsionali. Il Governo non può fare altro che procedere per tentativi, errori e correzioni degli errori. Mi pare che questo stia tenendo, e ne sono stupito in modo positivo».
Lei come sta affrontando l’isolamento?
«Naturalmente mi manca fare passeggiate e vedere amici, soprattutto la sera. Ma per il resto faccio la vita di sempre: dedico otto-dieci ore al giorno alla lettura e alla scrittura. Quello facevo e quello faccio, quindi mi ritengo fortunato».
Ora cosa sta leggendo?
«Ho ripreso in mano Lo scontro delle civiltà di Huntington, perché sto scrivendo un libro su come evolve la cultura in Italia, intendendo per cultura la scuola, la letteratura, l’arte, ma anche gli usi e costumi degli italiani».
Cosa si aspetta dalla fine di quest’emergenza?
Spero si torni a un consumo più meditato, e non si leghi la propria qualità della vita a cose inutili e ad eventi futili, ma si vada al sodo, coltivando quei bisogni radicali di cui parlavamo. Questa è la società che dobbiamo costruire, non quella dalla quale usciamo, terribile, tutta incentrata sull’egoismo umano e sullo scontro degli egoismi».

*Domenico De Masi è professore emerito di Sociologia del lavoro presso l’Università La Sapienza di Roma. Prima di intraprendere gli studi sociali, si è laureato in Giurisprudenza a Perugia.

Autore

Giovanni Landi

Giovanni Landi è nato ad Agropoli nel 1990. Laureato in Giurisprudenza, è dottore di ricerca in Scienze Giuridiche. È giornalista praticante presso la Scuola di Giornalismo Radiotelevisivo di Perugia.