Lotta al coronavirus: il metodo cinese

Oltre 60 milioni di cittadini in quarantena, riconoscimento facciale e droni: come, con gravi ritardi, Pechino è riuscita a contenere il virus
Misure senza precedenti e con un costo alto per le libertà individuali: il dilemma delle democrazie occidentali
Schermata della chat dove il medico Li Wenliang denunciava anzitempo il coronavirus

È un nuovo tipo di Sars, rischiamo una nuova epidemia. Il 30 dicembre 2019 Li Wenliang, giovane oculista di Wuhan, lancia l’allarme su WeChat, popolare social cinese. Ma per le autorità Li diffonde false notizie e disturba l’ordine sociale. Lo arrestano e, con lui, chiunque parli di questo nuovo virus. Una settimana dopo Pechino capisce che la minaccia è reale. Il 7 gennaio, si scoprirà più tardi, Xi Jinping stesso sapeva del virus. Ma le prime misure arrivano il 23 gennaio: l’intera regione dello Hubei, capitale Wuhan, 60 milioni di persone, viene isolata. Due settimane dopo Li Wenliang, 34 anni, muore, ucciso dal coronavirus. È passato poco più di un mese dalla sua prima denuncia e dal suo arresto, ma ora la propaganda di Pechino prova a farne un eroe nazionale. Troppo, per l’opinione pubblica cinese, che forse per la prima volta protesta in modo evidente. Sui giornali compaiono articoli critici verso il Partito. Le proteste sui social fanno breccia nella censura.

«Dopo un iniziale di ritardo, il presidente Xi Jinping ha messo in lockdown Wuhan e tutta la provincia dello Hubei» dice Simone Pieranni, giornalista del Manifesto ed esperto di Cina. Il picco dei contagiati giornalieri è stato registrato a metà febbraio, per un cambiamento nel metodo di valutazione.  «Quando hanno iniziato a considerare come contagiati anche chi non aveva fatto il tampone – spiega Pieranni – ma presentava semplicemente problemi polmonari da una lastra». Poi un continuo calo dei nuovi casi giornalieri, fino al loro sostanziale azzeramento verso metà marzo.

L’esempio dimostra che si può abbattere la diffusione di coronavirus con decisioni politiche e con la mobilitazione di massa o, come dice il suo Presidente, con “La guerra popolare”. Ma a che prezzo? In Cina non si usa più cash, tutto viene fatto con le app e questo fornisce una mole immensa di dati alle autorità per effettuare attività di controllo sociale. «È stata la stessa Oms a sottolineare la capacità cinese di spezzare le catene del contagio – aggiunge Pieranni – grazie alla possibilità di risalire in tempo reale ai contatti avvenuti da ogni singola persona». Oltre a questo, a perlustrare le città ci sono robot che disinfettano le strade, droni dotati di tecnologia per rilevare la temperatura corporea, sistemi avanzati di riconoscimento facciale e, in dotazione agli agenti di polizia, caschi intelligenti in grado di rilevare la febbre dei passanti. Le autorità si sono servite anche di un’app sviluppata dal colosso cinese Tencent, proprietario di WeChat, che invia notifiche all’utente nel caso in cui sia entrato in contatto con persone che hanno contratto il coronavirus. Un’altra, prodotta dalla società di e-commerce cinese Alibaba, è in grado di assegnare colori agli utenti, grazie all’uso dei big data, per stabilire se possono recarsi in luoghi pubblici (verde), se è meglio per loro stare in quarantena per una settimana (giallo) o due (rosso).

Ugualmente efficace, ma profondamente diverso, è il metodo usato dalla Corea del Sud per arginare l’epidemia. La stabilizzazione è arrivata nella prima metà di marzo, intorno agli 8mila contagi. Ma come ha fatto? Le autorità sanitarie hanno inviato alla popolazione i “messaggi di orientamento sulla sicurezza”. Centinaia di sms dove veniva rivelata la geolocalizzazione delle persone infette. In Corea, il sindaco di Taegu, ha chiesto a tutti i cittadini di rimanere nelle loro case e indossare una maschera in ogni momento, anche all’interno delle loro case. Era il 20 febbraio. Da allora la Corea ha condotto oltre 15.000 test al giorno, anche agli asintomatici. Limitando sì la privacy dei propri cittadini, ma garantendone, a differenza della Cina, le libertà personali. Il giorno successivo hanno chiuso le biblioteche pubbliche e le strutture per anziani. Con un solo caso appurato. A quel punto le fermate della metropolitana, i negozi e i luoghi pubblici erano già pieni di distributori di disinfettanti per le mani. I controlli della temperatura sono stati effettuati su tutti i viaggiatori che arrivano dalle aree a rischio. Pechino però ora teme il “contagio di ritorno”. A metà marzo per la prima volta i contagi nel mondo hanno superato i casi in Cina. Il rischio, come avverte l’Oms, è che questa pandemia non possa essere contenuta se ogni paese non fa la sua parte.

Autore

Riccardo Annibali

Nato a Roma il 26 febbraio 1989, laureato in Scienze della Comunicazione presso l'università Lumsa e giornalista praticante della Scuola di Giornalismo Radiotelevisivo di Perugia.