“Siamo uomini o caporali?”: così Totò raccontò i campi di concentramento

L’opera che racchiude la filosofia dell’attore è tornata in televisione a 65 anni dall’uscita
Un testamento “qualunquista” che fu anche fra i primi film italiani a mostrare i lager nazisti

Fra le frasi di Totò che hanno segnato la cultura popolare italiana, «Siamo uomini o caporali?» è quella dalla storia più profonda e complessa.

L’espressione nacque come motto teatrale e fu poi la battuta finale del film “L’imperatore di Capri” (1949), oltre ad essere pronunciata, nello stesso anno, in “Totò le mokò”. Nel breve libro che Antonio De Curtis scrisse insieme ad Alessandro Ferraù nel 1951, intitolato proprio “Siamo uomini o caporali?”, il Principe spiegò l’origine di quell’interrogativo così ricorrente.

Durante la Prima Guerra Mondiale, il giovanissimo Antonio fu trasferito nel Reggimento di Livorno. Qui si ritrovò un superiore che lo maltrattò oltre ogni misura, insultandolo di continuo e assegnandolo ai servizi più umili. Una persecuzione che aumentò giorno dopo giorno e che fece di quell’uomo «il simbolo della prevaricazione dei forti nei confronti dei più deboli: il massimo della vigliaccheria e della cattiveria». Più l’indifesa vittima si mostrava remissiva, ubbidiente, più il capo la tormentava. «Ai caporali – scrisse Totò – contrapposi gli uomini, ossia le persone per bene, capaci anche di esercitare la loro autorità, se ne hanno, senza abusarne».

Questa summa divisio fu portata sullo schermo nel 1955 dall’omonimo film di Camillo Mastrocinque, fra i pochi in cui Totò è anche sceneggiatore. “Siamo uomini o caporali?” (il punto interrogativo fu aggiunto alcuni anni dopo, forse per smussarne il messaggio estremo) ebbe un’accoglienza clamorosa: con i suoi cinque milioni di spettatori e un incasso di 730 milioni di lire (circa dieci milioni di euro attuali) è il quarto film di maggior successo della storia di Totò. Inutile dire che fu invece guardato con sospetto dalla critica di allora, che non ne apprezzò la commistione, ritenuta frettolosa, fra realismo, commedia e farsa.

«Siamo uomini o caporali?», ritrasmesso in questi giorni da Rai Movie a 65 anni dall’uscita, è un film ambizioso, una sorta di panoramica storica. Il protagonista, Totò Esposito, è un pover’uomo sempre tradito dalla vita. Condotto di fronte a uno psichiatra dopo aver reagito con violenza all’ennesimo sopruso, racconta al medico tutte le sue sfortune. Mentre si traveste per saltare la fila di un negozio di alimentari, viene catturato dai fascisti e rinchiuso in un campo di concentramento tedesco, da dove riesce a fuggire insieme a Sonia, un’internata di cui è innamorato. Quando arrivano a Roma, la città è appena stata liberata, ma per Totò le ingiustizie non sono finite. Verrà umiliato da un colonnello americano, raggirato da un giornalista senza scrupoli e infine sconfitto in amore da un imprenditore lombardo, che sposa la sua amata Sonia.

Tutti i personaggi negativi sono interpretati da Polo Stoppa, a significare che i prepotenti della vita, in fondo, non cambiano mai. Il copione originale comprendeva anche un “caporale” comunista, ma questo episodio fu tagliato dalla censura dell’Ufficio centrale per la cinematografia, all’epoca retto da Annibale Sciclunga Sorge. Sopravvisse al “visto”, invece, la frase «si stava meglio quando si stava peggio», entrata nell’uso comune per descrivere l’eterna insoddisfazione per l’oggi.

La parte ambientata nel lager nazista, dove infuria il terribile e macchiettistico colonnello Hammler (sempre Paolo Stoppa) rende il film storico: dopo “L’ebreo errante” del 1948, è la seconda opera cinematografica italiana a raccontare la realtà dei campi di concentramento. Qui, pur nella disperazione, Totò non rinuncia alla generosità e all’ingegno. Comunica con Sonia grazie a un telefono senza fili e riesce a rubare alcuni viveri per consegnarli alle donne denutrite. Quando Hammler scopre il furto, Totò confessa per evitare una fucilazione di gruppo, e viene condannato a morte. Tuttavia è graziato dal medico del lager, che vuole usarlo come cavia per un esperimento: potenziare il fisico dei soldati nazisti con scariche elettriche. Proprio grazie agli effetti di questo test, Esposito trova la libertà e si dirige verso ben altre disavventure.

È curioso come il secondo, rudimentale (e un po’ dimenticato) affresco italiano sull’internamento politico sposi la chiave del grottesco, ben prima del premio Oscar “La vita è bella” del 1997. Ma qui dell’ispirazione tragicomica di Benigni c’è poco. C’è, semmai, la volontà di inserire anche la dittatura nella parabola senza uscita del “povero Cristo”, dell’uomo qualunque che nonostante i buoni sentimenti non riesce a vincere la battaglia con la sopraffazione. Nel film, Totò spiega allo psichiatra gli estremi della sua filosofia:

«L’umanità io l’ho divisa in due categorie di persone: uomini e caporali. La categoria degli uomini è la maggioranza, quella dei caporali, per fortuna, è la minoranza.
Gli uomini sono quegli esseri costretti a lavorare tutta la vita come bestie, senza vedere mai un raggio di sole, senza la minima soddisfazione, sempre nell’ombra grigia di un’esistenza grama.
I caporali sono appunto coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che maltrattano, che umiliano. Questi esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno li troviamo sempre a galla, sempre al posto di comando, spesso senza avere l’autorità, l’abilità o l’intelligenza, ma con la sola bravura delle loro facce toste, della loro prepotenza, pronti a vessare il povero uomo qualunque.
Dunque, dottore, ha capito? Caporali si nasce, non si diventa. A qualunque ceto essi appartengano, di qualunque nazione essi siano, ci faccia caso: hanno tutti la stessa faccia, le stesse espressioni, gli stessi modi, pensano tutti alla stessa maniera».

Il breve monologo è considerato il testamento spirituale dell’attore napoletano.  Sul suo significato politico si è molto discusso, così come sulla fede ideale di Totò, che preferì sempre tenerla riservata («l’impegno – scrisse – ammazza la comicità»). Per lungo tempo si è parlato di una possibile simpatia monarchica, o conservatrice, o anarchica di destra, mentre per altri, tra cui la seconda moglie Franca Faldini, Antonio De Curtis era intimamente di sinistra. Di certo, accanto a un privato vissuto con valori antichi, nel suo cinema emerge più di tutti il racconto della povertà, raffigurata da personaggi che fanno dell’arte di arrangiarsi il segno di una sostanziale innocenza («Io so a memoria la miseria, e la miseria è il copione della vera comicità»). Eppure, come ha più volte rilevato lo scrittore Dino Cofrancesco, questo monologo manicheo sembra avvicinarsi soprattutto alle tesi qualunquiste del napoletano Guglielmo Giannini, che di Totò fu amico e che nel 1945 aveva pubblicato un libro-manifesto in cui divideva l’umanità fra folla e capi (“La folla. Seimila anni di lotta contro la tirannide”).

L’Uomo Qualunque, di cui De Curtis sarebbe «la sublimazione poetica», per lo storico Giovanni Orsina «ha rappresentato la crisi di rigetto di una società civile esposta a un eccesso di politica, ovvero una conseguenza dell’età dei totalitarismi, e in questo senso è stato un fenomeno liberale». Liberale nel suo essere incentrato sull’individualismo (a differenza del collettivismo populista) e sulla polemica verso la classe politica, oltre che su una considerazione dell’Uomo Qualunque che può essere anche colto e illuminato, e quindi merita la discrezione dell’apparato pubblico.

In ogni caso, la straordinaria capacità di Totò di mostrarsi empatico verso le vittime di ogni giorno, insieme a una spiccata generosità privata, ha contribuito a renderlo quello che è: una specie di divinità laica, a Napoli venerata come un compagno perenne. Nel finale di “Siamo uomini o caporali?”, quando vede Sonia allontanarsi col marito, fra gli sbuffi dell’auto di lusso dell’ennesimo caporale-Stoppa, Totò si abbandona a un timido pianto. È il pianto di un attore che ha saputo davvero, come disse Pier Paolo Pasolini, armonizzare in maniera indistinguibile «l’assurdità e l’immensamente umano».

Autore

Giovanni Landi

Giovanni Landi è nato ad Agropoli nel 1990. Laureato in Giurisprudenza, è dottore di ricerca in Scienze Giuridiche. È giornalista praticante presso la Scuola di Giornalismo Radiotelevisivo di Perugia.