Dalla Spagnola al Coronavirus, l’inevitabile ricorrere delle pandemie

La Covid-19, comparsa appena undici anni dopo la peste suina, è solo l'ultima delle grandi epidemie che hanno flagellato il mondo L'esperta: «Impossibile debellare definitivamente: come con i terremoti, possiamo solo imparare a conviverci»
Sars, Aviaria, Ebola e adesso Coronavirus: in un mondo globalizzato e interconnesso le epidemie si diffondono rapide e contagiose. Diverso nome, stesso impatto sconvolgente sulla vita umana

Il parametro decisivo per classificare un’epidemia come pandemia non è tanto la gravità della malattia, quanto l’efficacia con la quale essa si diffonde: secondo l’Organizzazione mondiale della sanità è necessario che il virus abbia colpito almeno due continenti con un ritmo di trasmissione da uomo a uomo sostenuto. Prima dell’11 marzo scorso, l’ultima dichiarazione di pandemia risaliva al 2009. Quell’anno la peste suina, scoppiata in Messico, si diffuse rapidamente in tutto il mondo colpendo circa un miliardo di persone e causando tra i 100mila e i 400mila morti solo nel primo anno. La paura rientrò quando fu chiaro che il tasso di letalità era inferiore anche a quello della normale influenza (0,001%). La sua fine fu annunciata nell’agosto del 2010. Da allora il virus A/H1N1 è compreso nel vaccino antinfluenzale.

Dagli animali all’uomo – Da un secolo a questa parte, spiegano epidemiologi e virologi, in un’economia di libero mercato con scambi vorticosi di persone e merci, le pandemie si susseguono a ritmi piuttosto regolari. Si tratta di una lunga storia di zoonosi, ovvero malattie che si diffondono passando dagli animali agli uomini, secondo il meccanismo di spillover o “salto di specie” e il SARS CoV-2 non fa eccezione. Secondo Barbara Gallavotti biologa, coautrice del programma Superquark e autrice del libro Le grandi epidemie: «Si possono debellare le malattie che sono solo umane, come è accaduto con il vaiolo, ma non quelle che hanno serbatoi naturali, animali: con quelle dovremo convivere per sempre e possiamo solo imparare a difenderci con farmaci e vaccini».

Pazienti ricoverati per l’influenza spagnola nell’ospedale da campo allestito nella caserma di Fort Collins in Colorado (1918)

Corsi e ricorsi clinici – Nonostante il contagio da Coronavirus segua ritmi molto elevati e sia stato in grado in breve tempo di diffondersi in tutto il mondo, non è la prima volta che l’Italia si trova ad affrontare un’emergenza simile. Nel XX secolo sono state infatti tre le pandemie influenzali che si sono susseguite sul nostro territorio: la spagnola nel 1918, l’asiatica nel 1957 e l’influenza di Hong Kong nel 1968. Tutte sono nate da sottotipi antigenici differenti del virus dell’influenza A che hanno preso il nome dalla presunta area di origine. La più violenta è stata senza dubbio la spagnola, che infettò un quinto della popolazione mondiale e si diffuse rapidamente anche a causa del massiccio spostamento di truppe durante la Grande Guerra, rispetto alla quale fece più vittime (tra i 50 e i 100 milioni di morti a fronte dei circa 17 milioni dovuti al conflitto). «Il fatto che l’andamento di queste epidemie è ricorrente non vuol dire che sono sempre le stesse – spiega Barbara Gallavotti – noi dobbiamo convivere con la probabilità che ciclicamente dall’ambiente emerga qualcosa di potenzialmente devastante che non abbiamo mai conosciuto prima. Per lavorare d’anticipo possiamo solo fare più ricerca di base, ma è come cercare un ago in un pagliaio».

Il lato oscuro della globalizzazione – Con l’arrivo del XXI secolo una società più interconnessa e tecnologicamente avanzata non è riuscita a contenere i contagi epidemici. Anzi, proprio il passaggio agli anni duemila è stato segnato da alcune malattie devastanti come la Sars (Severe acute respiratory syndrome, sindrome respiratoria acuta grave), una forma atipica di polmonite, anch’essa causata da un Coronavirus, comparsa per la prima volta nel novembre 2002 nella provincia del Guangdong in Cina, che in un anno uccise 800 persone, tra cui il medico italiano Carlo Urbani, il primo a identificare il virus. In quegli stessi anni, la vendita massiccia di pollame vivo nei mercati cinesi, in condizioni di sovraffollamento e di igiene precaria, ha portato alla diffusione dell’aviaria, una malattia infettiva altamente contagiosa che prima di passare agli esseri umani colpì diverse specie di uccelli selvatici e domestici (anatre, oche, polli, tacchini). Per contrastare questo virus, l’A/H5N1 nel 2004, solo in Italia, sono state stoccate 40 milioni di dosi di antivirali.

Quando l’influenza aviaria colpì gli allevamenti, 140 milioni di polli e tacchini vennero eliminati per frenare la diffusione del virus

Nel 2012 un’altra ondata epidemica, dovuta ancora una volta ad un Coronavirus, comparve nella penisola arabica attorno al 2012 con il nome di MERS (Middle East respiratory syndrome, sindrome respiratoria medio-orientale). Ennesimo fenomeno di zoonosi, il suo vettore fu il dromedario e i prodotti da esso derivati, come il latte non pastorizzato. Più di recente l’Ebola ha colpito l’Africa occidentale a partire dal 2013 per poi diffondersi nel corso del 2014. I vettori del virus sono stati alcuni pipistrelli che hanno contagiato grandi scimmie ed esseri umani. Ma l’epidemia di febbre emorragica, nonostante l’elevato tasso di mortalità, non è mai stata classificata come pandemia per la sua limitata diffusione, data l’impossibilità del virus di trasmettersi per via aerea e essere contratto in forma asintomatica.

La storia non si ripete ma fa rima – Quella delle epidemie è una periodicità che nel suo manifestarsi sta assumendo, nel corso degli anni, una ricorrenza quasi naturale. Una cadenza che, per quanto ben scandita, civiltà globalizzate ancora non riescono a prevenire. «I virus e i batteri sono parte del pianeta in cui viviamo – chiosa Barbara Gallavotti – non possiamo prevedere con largo anticipo quando una nuova malattia si diffonde così come non possiamo sapere quando ci sarà la prossima scossa sismica, ma possiamo imparare a conviverci, ad esempio sfruttando tecnologie antisismiche che rendono gli effetti sugli edifici meno catastrofici. Ecco, una pandemia è un po’ come un terremoto».

Autore

Rebecca Pecori

Nata a Roma il 19/02/1994. Diplomata al Liceo classico Torquato Tasso di Roma. Laurea Magistrale in Filosofia morale presso l'università La Sapienza di Roma. Giornalista praticante del XIV Biennio della Scuola di Giornalismo Radiotelevisivo di Perugia.