Immigrazione, perché i centri di accoglienza umbri sono in crisi

Dopo l'impennata di sbarchi la scorsa estate il governo parla di «emergenza». Rondoni, Arci Umbria: «La vera emergenza sono i centri di accoglienza»
Nei Cas i richiedenti asilo restano anche per due anni in attesa dell'esito della loro domanda. Il paradosso dell'accesso alle cure


«La vera emergenza dell’immigrazione non sono gli arrivi, ma il tempo di permanenza nei Cas (centri di accoglienza straordinaria, nda)». Con queste parole Silvia Rondoni, coordinatrice dell’area sociale e accoglienza di Arci Umbria, descrive lo stato attuale della questione immigrazione. Un tema che è entrato ancora di più nel dibattito pubblico regionale in seguito all’aumento degli sbarchi nel corso della gestione estiva. Generando anche alcune situazioni critiche – ora risolte – come quella di Fratta Todina. Il sindaco a fine agosto lamentava un afflusso eccessivo (120 immigrati su una popolazione di 1.800 abitanti circa) e reclamava un intervento della Prefettura per «evitare il collasso».

La «vera» emergenza – L’afflusso di migranti nell’estate scorsa è stato effettivamente superiore alla media, con cifre che non si vedevano dalla crisi migratoria del 2015/16 dovuta alla guerra in Siria. Inevitabili le ricadute anche in Umbria: il fenomeno dura ormai da così tanti anni da non poter più essere definito, spiega Silvia Rondoni di Arci Umbria, «emergenziale, ma strutturale». Semmai di emergenza si può parlare per i Cas, strutture che dovrebbero ospitare i migranti solo in attesa dell’esito della loro richiesta di asilo, che invece si trasformano in luoghi in cui restano per anni. «Se le cose funzionassero, la permanenza in un centro straordinario dovrebbe essere di 4-6 mesi – spiega Rondoni – invece le sole pratiche per il rilascio del permesso di soggiorno sfiorano i 6 mesi. Poi ci vuole un anno per la decisione del giudice e ulteriore tempo per l’eventuale ricorso. Così le persone restano anche 2 anni in un Cas a non fare nulla».

Come funziona l’accoglienza – Negli anni la normativa che disciplina l’accoglienza di richiedenti asilo, rifugiati e migranti in Italia è cambiata più volte. Ad oggi, i migranti soccorsi in mare vengono anzitutto portati in centri nei pressi delle aree di sbarco per la prima assistenza sanitaria, il fotosegnalamento e la pre-identificazione. Chi manifesta la volontà di richiedere asilo in Italia viene trasferito presso i centri d’accoglienza gestiti dal ministero degli Interni. Qualora si esaurissero i posti, le prefetture possono prevedere l’istituzione dei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) e affidarli a soggetti privati per sopperire alla mancanza di posti nelle strutture ordinarie. Eppure, benché pensati per una situazione straordinaria, ad oggi i CAS sono il percorso più comune per la maggior parte dei richiedenti asilo. Se la domanda viene respinta (o se non viene nemmeno presentata) la tappa obbligata sono i CPR (centri di permanenza per i rimpatri), prima dell’espulsione.

La questione sanitaria – Il problema è complesso e tocca vari temi, tra cui il diritto alla salute. Una questione paradossale è legata al cosiddetto STP (Straniero Temporaneamente Presente): un codice con cui i non regolari possono accedere alle prestazioni sanitarie. Questo codice, quindi, esclude chi arriva nei Cas, poiché richiedente asilo, che però deve aspettare i tempi della questura (almeno 6 mesi) per avere il permesso di soggiorno e quindi l’accesso alle cure di base. Rondoni mette il dito nella piaga: «E se in questi 6 mesi si ammalano?».

Autore

Luca Capponi

Nato a Velletri nel 1998, è cresciuto a Roma, dove si è laureato in Giurisprudenza. Giornalista praticante del XVI biennio della Scuola di Giornalismo Radiotelevisivo di Perugia.