La mia odissea da migrante come quella di “Io capitano”

Allo Zenith di Perugia il film di Matteo Garrone premiato a Venezia: a presentarlo Moussa Doumbia, protagonista dello stesso viaggio dieci anni fa
«Più che con il razzismo, in Italia c'è un problema di egoismo e ignoranza: si deve partire dalla conoscenza»

Scorrono i titoli di coda, resta impresso il sorriso esausto di un ragazzo che dopo immense sofferenze ha capito di avercela fatta, di aver portato in salvo decine di persone. Moussa Doumbia esce dalla sala, ormai quel film lo avrà visto innumerevoli volte. È dai primi di ottobre che il cinema Zenith di Perugia, oltre a registrare ottime presenze negli spettacoli serali, organizza proiezioni del film “Io capitano” per le scuole, e Moussa gestisce il dibattito finale con studenti e studentesse. «È difficile dire che emozioni ho provato dopo aver visto il film di Matteo Garrone – racconta, seduto nella stanza al piano superiore del suo bar in centro a Perugia – mi ha riportato indietro nel tempo, mi ha fatto rivivere quel viaggio che a mia volta ho fatto da protagonista, ormai quasi dieci anni fa».

Matteo Garrone e Andrea Fioravanti, cinema Zenith Perugia

Odissea contemporanea – «Si tratta di un’odissea contemporanea: un po’ racconto epico, un po’ romanzo di formazione», premette lo stesso Garrone, che con questo film ha vinto il Leone d’argento per la miglior regia al Festival di Venezia. «Mi sono aggrappato alle storie di chi ha vissuto realmente questa avventura: sono stato solo un tramite – racconta il regista alla platea dello Zenith – Volevo presentare un altro punto di vista rispetto alle immagini, che invece abbondano, degli arrivi dei barconi a Lampedusa». Il risultato è un toccante e doloroso spaccato del viaggio visto dagli occhi dei giovani protagonisti, Seydou e Moussa, che da Dakar (Senegal) raggiungono le coste della Libia, per poi salire su una barca alla volta della tanto agognata Europa. E nel mezzo, la disperazione del deserto e la brutalità dei predoni libici, le violenze, i centri di detenzione. Storie diverse per ogni uomo, donna o bambino che affronta la traversata, eppure a tutti così familiari.

Da sinistra, Matteo Garrone, Andrea Fioravanti, Moussa Doumbia e Giovanni Dozzini – Foto: Moussa Doumbia

La partenza – Quella di Moussa Doumbia, di storia, comincia in Mali, all’incirca una trentina di anni fa. «Non sarei voluto andare via dal Paese dove sono nato: come gran parte delle persone che si spostano dal continente africano, nemmeno nel mio caso l’obiettivo era venire in Europa. Ma le circostanze mi hanno portato qua». Viste le esperienze passate, ormai non fa più programmi: «Lascio scorrere e quel che succede, succede». E se ogni persona migrante è mossa da una spinta diversa e personale – come può essere il sogno di una carriera musicale nel Vecchio continente per i due cugini protagonisti del film – quello di Moussa è stato uno strappo legato anche al travagliato rapporto con la famiglia. «Sono arrivato a un punto di rottura con i miei genitori – racconta – non potendo né volendo crescere lì, nel 2013 sono andato via dal Mali. Prima la Libia, dove ho trascorso qualche mese a casa di uno zio, poi la traversata». Braccia incrociate, preferisce non soffermarcisi. E proprio là, dove la narrazione di Garrone si interrompe con l’avvistamento delle coste italiane, ricomincia la storia di Moussa: «Ho visto la banchina di Lampedusa di sfuggita, ci hanno subito fatto imbarcare per Messina. Ma anche lì siamo stati meno di una settimana: dopo sei giorni siamo stati trasferiti a Perugia».

L’arrivo a Perugia – A inizio giugno 2014 arriva nel capoluogo umbro: insieme ad altri ragazzi maliani viene collocato nel Centro di accoglienza straordinaria (Cas) di Ponte Felcino, dove comincia a seguire lezioni di italiano e, nel giro di poco tempo, corsi di formazione come quelli per barman organizzati dall’Università dei Sapori. Adesso, a quasi dieci anni di distanza, è il proprietario del Cafè Timbuktu, locale che unisce tradizione culinaria africana e incontri musicali e letterari – fondatore e presidente della Timbuktu Aps e mediatore culturale. Alla domanda se abbia mai avuto esperienze negative durante il percorso di integrazione, risponde senza pensarci troppo: «Problemi ce ne sono sempre, così come gli episodi spiacevoli. Io però posso solo dire che quelli belli sono di più. Se fai il confronto, quindi, i “belli” alla fine vincono». Uno sguardo, nonostante il peso del passato che porta sulle spalle, fiducioso e rivolto al futuro: «Per la mia esperienza, l’Italia ha un problema più grande con l’egoismo e l’ignoranza che con il razzismo. Ovviamente i razzisti ci sono anche qua – precisa Moussa – come ho potuto vedere anche nei Paesi arabi, ma secondo me tutto parte dall’ignoranza che porta a dire: questi vengono qua da noi e gli danno pure i soldi, perché a me no? È da qua che si dovrebbe partire, dalla conoscenza».

Autore

Teresa Fallavollita

Nata a Perugia il 29/02/1996 e laureata in Scienze Politiche e Storia all'Università degli Studi di Bologna. Giornalista praticante del XVI biennio della Scuola di giornalismo radiotelevisivo di Perugia.