La corsa dei rider verso un nuovo contratto

Il tribunale di Milano sul caso Di Maggio: va assunto come dipendente. Deliveroo pronta al ricorso: «Il mercato va in un'altra direzione»
Formalmente sono autonomi, a gestirli è un algoritmo. Luigi Chiapparino, NIDIL-CGIL: «Il settore è ancora regolato da un contratto "pirata"»

Il lavoro del ciclofattorino, meglio noto come “rider” è uno dei più semplici e allo stesso tempo uno dei più complessi: chi fa le consegne non fa altro che portare cibo da un punto A a un punto B, ma chi lavora per le piattaforme di food delivery più note lo fa tra mille difficoltà. Soprattutto perché, ufficialmente, non lavora per le piattaforme ma con le piattaforme: sono lavoratori autonomi e non dipendenti. Il caso del rider Giuseppe Di Maggio potrebbe essere un punto di svolta per i diritti della categoria. Giovedì 9 febbraio la Corte d’Appello di Milano si è espressa a suo favore, dichiarando che deve essere assunto come lavoratore subordinato dalla piattaforma di food delivery per cui lavorava, Deliveroo.

La sentenza – Ora il colosso delle consegne dovrà pagargli uno stipendio minimo da 1400 euro, oltre a tredicesima e quattordicesima. Deliveroo però probabilmente farà ricorso in Cassazione, e ha pubblicato un comunicato molto critico verso la sentenza, in cui ricorda che «nessun tribunale italiano riconosce oggi l’inquadramento di lavoratore subordinato ai rider che collaborano con Deliveroo, che sono e restano pertanto lavoratori autonomi».

Il contratto in vigore – Come per ogni altra categoria di lavoratori, quello dei rider è un lavoro regolato da un contratto nazionale. Il contratto è stato firmato nel 2020 tra Assodelivery, che riunisce le piattaforme, e Unione Generale del Lavoro (UGL), che prevede che i lavoratori del settore non siano formalmente dipendenti. Un’intesa sui generis, secondo Luigi Chiapparino, giovane sindacalista CGIL, categoria NIDIL, Nuove Identità Del Lavoro. «Il contratto si basa su due pilastri – spiega Chiapparino – no alla subordinazione, quindi il rider è un lavoratore autonomo, e no al cottimo: i rider vengono retribuiti sulla base delle consegne che fanno e non in base alle ore che lavorano». Un’altra criticità è che il contratto sia stato firmato con un solo sindacato e, sottolinea ancora Chiapparino, «non rappresentativo della categoria: in gergo è quello che si definisce un “contratto pirata”, perché contravviene a un’esplicita norma di legge che dice che i contratti nazionali sono validi se sottoscritti dai sindacati comparativamente più rappresentativi».

Un settore per autonomi? – Secondo Assodelivery, l’associazione datoriale del mondo dei rider, il contratto sarebbe però giustificato dall’andamento generale del mondo del lavoro. «Osserviamo un mercato che continua a evolvere nella direzione del lavoro autonomo, di cui il food delivery rappresenta meno del 10%», ricorda Fabrizio Francioni, senior communications manager italiano per Deliveroo. Anche nel settore cresce il lavoro autonomo, mentre l’esperimento di Just Eat, che dal 2021 assume i propri ciclofattorino, non avrebbe portato a risultati positivi. «Il lavoro subordinato è in contrazione: dai 6000 lavoratori del 2021, i dipendenti di Just Eat nel 2023 sono circa 2500».

L’algoritmo e lo spettro del caporalato – Finché non ci sarà un nuovo contratto, dunque, i rider rimangono legati come lavoratori autonomi alle piattaforme, dove la loro attività è mediata da un algoritmo e non da una persona in carne e ossa. Il sistema, in base alle ore che un lavoratore “copre”, assegna un punteggio e regola quante consegne potrà fare il singolo rider. Per non vedersi diminuire questo punteggio, i rider arrivano a usare app che accettano gli ordini in automatico: se stai facendo una consegna e non puoi accettare manualmente un ordine, lasci che l’applicazione lo faccia automaticamente per te. Perdere una consegna, con il contratto in vigore dal 2020, equivale a perdere soldi. Qui si nasconde un’altra insidia, secondo Chiapparino: più rider potrebbero condividere uno stesso account per essere in grado di fare più consegne. «C’è il rischio, poi, che una persona titolare dell’account possa fare lavorare più persone “sotto” di sé. Questo – sottolinea Chiapparino – sarebbe caporalato in piena regola».

Autore

Pietro Forti

Nato a Milano il 22/06/1997, laureato in Scienze Storiche all'Università degli Studi di Roma Tre. Giornalista praticante del XVI biennio della Scuola di Giornalismo Radiotelevisivo di Perugia.