La pandemia ha cancellato anche il lutto

Ines Testoni è fra le massime esperte nazionali di “psicologia della morte”. Da dodici anni è alla guida di un master sul tema all’Università di Padova
«Con la distanza imposta dal Coronavirus si è aggravato un problema già presente. La crisi della ritualità rende più difficile elaborare la perdita e ristrutturare la vita»

La salma è portata in spalla senza il calore silenzioso della folla. Parenti e amici, in piedi e distanti come soldati ubbidienti, disegnano l’inedita geometria del lutto. Frenando l’istinto atavico di abbracciare i dolenti, si rassegnano a comunicare solo con gli occhi, inchiodati come sono al pavimento.

Nella liturgia della morte, la presenza degli altri è sempre stata un fatto imprescindibile. Nell’epoca del distacco imposto dalla pandemia, non più. «Si dispensa dalle visite», recitano senza scelta gli annunci del trapasso.  Lo spettro del contagio non consente di condividere il dolore, e proprio quel virus che accelera la sorte di molti, ora obbliga a piangere da lontano. Durante la prima fase è stato impedito qualsiasi contatto sociale, a inizio maggio si è concesso il “numero chiuso” alle esequie, adesso si sono riaperte le porte alle funzioni. Ma resta la distanza, e con essa le possibili conseguenze sulla psiche, sulla società e sull’accettazione del destino.

Ines Testoni, psicologa-psicoterapeuta e docente di Psicologia sociale all’Università di Padova, è fra le massime esperte nazionali di studi sulla morte. Da dodici anni guida il master “Death Studies and the End of life”, i cui tanti allievi, confida, «hanno portato in molte parti d’Italia una più profonda sensibilità, moltiplicando gli insegnamenti sul tema».

Professoressa, come si elabora il lutto senza contatto fisico?

«È un grande problema. Il rito funebre è uno spazio fortificato, noi diciamo “limen”, che regolamenta il rapporto fra mondo dei vivi e mondo dei morti. È un momento essenziale per andare “oltre” nella vita. In questo il Covid è stato come acido sulla piaga, ma la piaga c’era già».

In che senso?

«Già prima era in crisi la ritualità, e quindi il rapporto fra i due mondi. Il confinamento ha smantellato qualcosa che stava cadendo. E stava cadendo a causa di un progressivo materialismo della società. Che si manifesta, ad esempio, nel rinunciare a vedere la salma, nel non comprendere cosa si fa quando la si accompagna o frettolosamente la si inuma, con tempi sempre inferiori al matrimonio o ad altri riti. Il rito serve a dire a se stesso e agli altri: “Caro mio fantasma, ora non tornare a casa”».

Ines Testoni

E questo ha effetti a lungo termine?

«Assolutamente sì. È sempre più diffuso il fenomeno dei “continuing bonds”, ovvero indugiare in rapporti continuativi con il defunto. Il lutto è elaborato se si accetta la separazione, non se si intrattiene una relazione che ti impedisce di ristrutturare la vita. Non tutti sanno che sta aumentando la richiesta di medium, e che molti usano Internet per tenere in vita le pagine dei defunti o mandare messaggi da o per i cari estinti. Vuol dire che non stiamo elaborando i lutti».

Siamo una società che non sa fare i conti con le perdite?

«Quando dico che stiamo rinunciando sempre di più alla ritualità, dico soprattutto che non riusciamo a costruirne una nuova, perché ci mancano i simboli per distinguere i due mondi. Li smantelliamo, ma non abbiamo i sostituti. È un fenomeno diffuso in tutto il mondo, ma soprattutto nei paesi occidentali della “tecnica”».

Si riferisce ai riti religiosi?

«Anche. Lo spazio del sacro era lo spazio di negoziazione di perimetri rispetto ai quali il mondo dei defunti, per volontà divina, non doveva intromettersi nel mondo dei vivi. In questo periodo ci affidiamo alla scienza per l’organizzazione della vita sociale e per dare significato al tutto, mentre il trascendente ha un ruolo assolutamente secondario. Il Papa oggi esorta alla bontà e alla comprensione, ma non introduce mai discorsi di interpretazione dell’evento, cosa che un tempo faceva».

Alcuni propongono di recuperare in futuro le esequie “perdute” in questi mesi.

«Secondo me sarebbe utilissimo, e se anche si sfalsano le stagioni del lutto, non è grave. È un modo per riappropriarsi di un momento necessario a porsi interrogativi esistenziali».

Perché i parenti dei defunti hanno bisogno degli altri?

«La “condoglianza” è una cosa sana, e soprattutto nel Sud Italia è rimasta un’abitudine centrale. L’unione e la compagnia fanno bene. Lo stare vicino, il parlare, il raccontare permettono di comunicare e mediare significati, di attuare una consolazione condivisa. Ed è tutta salute mentale. Al Nord la ritualità funebre si riduce sempre di più, fino ad aberrazioni come i ciondoli post cremazione da portare sempre con sé».

È così grave?

«Sì, perché la cultura cimiteriale è la cultura comunitaria: se muore qualcuno non appartiene solo ai parenti, ma alla cittadinanza. Noi non sappiamo qual è la vera rete di relazioni del defunto: se la moglie si tiene il diamante al collo o sparge le ceneri dove sa solo lei, sta facendo qualcosa di negativo per il compianto e per gli altri».

Questa perdita di contatto con la morte ha anche conseguenze sociali?

«Una è sotto gli occhi di tutti, ed è la gestione della pandemia. Eravamo impreparati a rappresentarci la contaminazione mortale. Se vogliamo prevenire bene la morte ce la dobbiamo rappresentare bene, sapere che la morte non scherza. Se a livello individuale il memento mori serve ad accettare l’abbandono, a livello sociale è utile per predisporre tutti i dispositivi necessari alla prevenzione. Ma anche a non sentirci onnipotenti».

Nel suo master lei insiste molto sulla rappresentazione artistica della morte attraverso i secoli. Perché?

«Arte, scrittura, poesia sono preziosi perché consentono di penetrare in se stessi e andare a scoprire la luce interiore che tutti abbiamo. Finché rimane accesa, è difficile essere manovrati dall’esterno».

Oggi la morte come è rappresentata?

«Per il momento è irreale, è rimossa. È la morte di assassini mostruosi, serial killer, alieni. È analizzata fino al parossismo, ma non è mai la nostra. Non c’è mai morte in soggettiva, sempre sensazionalismo, mai una morte in cui ci si possa identificare: serve a fare paura e dire “per fortuna non mi riguarda perché non c’è Alien fra di noi”. Poi arriva il Covid».

Lei la morte di oggi a che opera d’arte la affiancherebbe?

«La foto dei camion funebri di Bergamo, nel suo essere tragicamente emblematica, è a suo modo un’opera d’arte. Illustra una morte che è ancora altro da noi, che non ci riguarda. Invece ogni morte è una singola storia. E bisogna tornare a raccontarla».

Autore

Giovanni Landi

Giovanni Landi è nato ad Agropoli nel 1990. Laureato in Giurisprudenza, è dottore di ricerca in Scienze Giuridiche. È giornalista praticante presso la Scuola di Giornalismo Radiotelevisivo di Perugia.