Un nome di battaglia non le è mai servito. A Walkiria Terradura, la partigiana umbra scomparsa la scorsa estate a 99 anni, bastava il suo, quello di una divinità guerriera scelto per lei dal padre antifascista. «Rivendicava di aver imbracciato il fucile, di aver fatto saltare ponti, di aver agito», racconta Mari Franceschini, presidente di Anpi Perugia, l’Associazione nazionale partigiani d’Italia, che ha conosciuto Walkiria e ne fa un ritratto preciso e pieno di riconoscenza: «L’ammiro molto perché è stata capace di dare un’immagine corretta della Resistenza, quella vera».
L’antifascismo delle origini – Walkiria Terradura nasce a Gubbio nel 1924, in una famiglia antifascista. Suo padre Gustavo, avvocato del Foro di Perugia, era infatti finito in carcere per le sue idee rivoluzionarie e liberato solo dopo la caduta di Mussolini. «Lo amava molto e gli era profondamente legata», ricorda Mari. «Mi ha dato lo schema per andare avanti nella vita, per distinguere il giusto dall’ingiusto», raccontava la partigiana in una delle tante interviste rilasciate per tramandare la sua storia e conservare così la memoria della Resistenza. Un giusto che Walkiria imparerà prestissimo ad abitare: al liceo viene più volte portata in questura per il suo atteggiamento ostile al regime. Poi, nel settembre del’43, eviterà al padre un altro arresto nascondendolo nelle soffitte del Palazzo dei Duchi di Urbino, dove vivevano. «L’ho salvato dall’Ovra e subito dopo siamo fuggiti verso i monti del Burano, fra Umbria e Marche», ha sempre raccontato. E, secondo Mari, in queste parole c’è già moltissima della forza di Walkiria: «Il fatto che lei dica di averlo salvato anziché di essersi salvata insieme a lui è, in fondo, una rivendicazione di autonomia».
Questo episodio segna per lei l’inizio di una lotta che la vedrà impegnata fino in fondo e le varrà il titolo di sottotenente, la medaglia d’argento al valore militare e ben otto mandati di cattura spiccati contro di lei dai nazifascisti.
Una donna al comando – «Minoranza nella minoranza, per le donne che scelgono di portare le armi si tratta di una scelta consapevole, fortemente voluta, carica di significati simbolici». La giornalista Benedetta Tobagi in La Resistenza delle donne, suo ultimo libro, descrive così il sentire delle partigiane combattenti che, tra il ’43 e il ’45, difendono l’Italia esattamente come gli uomini, talvolta in posizioni di comando. Proprio come Walkiria, nominata dai suoi stessi compagni comandante della squadra Settebello, formata da sei partigiani della V brigata Garibaldi di Pesaro e specializzata in sabotaggi. «Ho fatto saltare almeno tre ponti e la cosa mi ha molto entusiasmata» ricordava spesso Walkiria che, però, parlava anche di momenti più difficili, quelli in cui aveva imbracciato il fucile contro i tedeschi. «Uccidere un altro essere umano non è una cosa semplice – confessava – ma quando ho visto come torturavano i nostri ho capito che eravamo in guerra». Questa franchezza, secondo Mari, non ha mai abbandonato la comandante partigiana: «Walkiria ha saputo dire della Resistenza le cose essenziali. Non l’ha indorata e non aveva atteggiamenti di reducismo. Non ha parlato di eroi, ma di persone normali disposte a pagare per le scelte fatte».