“Schiudere” il carcere: la clinica legale non è solo un progetto di studio

L'obiettivo non è assistere un detenuto, ma fare in modo che resti un cittadino a tutti gli effetti
All’Università di Perugia si cerca di superare il modello dello sportello legale: non è più solo una finestra sulla detenzione, ma un modo di conoscere la realtà dei penitenziari. L’esperienza è riprodotta in tutta Italia

Fino a quando non si tocca con mano il proprio ambito di studio non ci si sente neanche responsabili di come le proprie azioni cambiano le vite delle persone. È questo il pensiero dietro alla “Clinica legale penitenziaria”, un esperimento che dal 2018 viene adottato anche dall’Università di Perugia in collaborazione con la Casa circondariale di Capanne: gli studenti iniziano a interfacciarsi con i detenuti, a prendersi carico delle loro storie e delle loro necessità. La filosofia da cui si parte è semplice: il detenuto non cessa di essere un cittadino nel momento in cui entra in carcere. Se il reinserimento spesso è così difficile, il motivo sta anche qui. Ma come può un progetto universitario affrontare un problema così grande?

Lasciare entrare il mondo nel carcere – «C’è dietro una metodologia didattica differente: si passa dalla law by the book, studio di codici e testi, alla law in action, diritto in azione», spiega la dottoressa Francesca Sola, tra le responsabili della Clinica. La differenza con lo sportello legale, che l’ha preceduta dal 2011 al 2018, è anche “prospettica”: non è più il detenuto a cercare il mondo fuori per un consulto che potrebbe ottenere da un avvocato, ma è il “clinician” ad aprire uno spiraglio per conoscere la condizione del detenuto e fare in modo che vita e diritti non si esauriscano nelle mura del penitenziario. «Gli studenti devono ottenere più informazioni possibile – continua la dottoressa Sola – il singolo detenuto è anche una fonte di conoscenza significativa. Il caso reale è situazione di stimolo. Per farlo dobbiamo allacciarci alla rete di conoscenze e di affetti del detenuto».

Learning by doing La teoria, come già detto, non basta. In qualsiasi altro ambito sarebbe impossibile convincere studenti e dottorandi ad allontanarsi dalla propria comfort zone, dal loro ambito di competenza. Ma il carcere rimane un buco nero tanto per chi non ha un’infarinatura di diritto penale quanto per chi ha studiato giurisprudenza e si sta specializzando. E qui diventa impossibile non fornire delle basi: «Cerchiamo di costruire un’impalcatura di diritto penitenziario e di sociologia del carcere su cui poi loro si muovono di fronte al caso pratico. L’approccio clinico non è solo sportello “da pubblica amministrazione”, non c’è una risposta a una domanda secca che viene posta: si cerca di studiare la situazione legale del detenuto rendendo partecipe la stessa persona», precisa la dottoressa Sola.

Irregolare amministrazione Certo, qualche volta si diventa davvero un punto di riferimento, ma l’obiettivo non è quello di sostituirsi all’avvocato o all’assistente sociale. «Mettiamo caso il carcerato abbia diritto alla disoccupazione: a queste persone manca un soggetto che si possa occupare di questioni simili. Anche quando non lavorano per loro è importante restare cittadini. È fondamentalmente una pratica da patronato, la clinica cerca di occuparsi anche di queste cose». L’obiettivo della clinica non è solo il reinserimento dei detenuti, ma fare in modo che l’esterno entri nella vita del penitenziario. Una missione che potrebbe rendere un po’ meno sigillato un mondo così chiuso come quello del carcere.

Autore

Pietro Forti

Nato a Milano il 22/06/1997, laureato in Scienze Storiche all'Università degli Studi di Roma Tre. Giornalista praticante del XVI biennio della Scuola di Giornalismo Radiotelevisivo di Perugia.