Dalla Libia all’Ucraina, Mannocchi: «È il lato del male che fa capire le cose»

La reporter ha coperto le principali zone di crisi: dal Mediterraneo all’Afghanistan. Il suo racconto a Quattrocolonne
La fondatrice del Festival del giornalismo, Arianna Ciccone: «Quello che fa Francesa è raccontare la sopravvivenza»

«Il giornalismo serve a far sì che il nostro corpo diventi strumento di comprensione». Francesca Mannocchi, giornalista freelance e collaboratrice di alcune tra le più importanti testate italiane – oggi principalmente La Stampa – e internazionali, descrive così il suo mestiere. Lo fa seduta a un tavolo dell’hotel Brufani, al Festival del giornalismo di Perugia, con la calma e la chiarezza che rendono ormai riconoscibile il suo stile nel raccontare zone di crisi come Siria, Libia, Afghanistan e, più di recente, Ucraina e Bangladesh.

La cassetta degli attrezzi – Arianna Ciccone, fondatrice del Festival, definisce la sua scrittura un «raccontare la sopravvivenza». Per farlo però, spiega Mannocchi, bisogna essere pronti a cambiare idea. «Uno dei viaggi che più mi ha segnato è quello in Libia – dice – perché mi ha fatto capire quanto tutto ciò che crediamo essere monolitico delle storie che raccontiamo, in realtà non lo sia». Per chiarire l’importanza del cambiare prospettiva fa un esempio che riguarda la sua esperienza in Ucraina: «C’è un dolore specifico dei soldati che è molto sottovalutato: chi combatte al freddo è animato dal medesimo, se non più forte, desiderio di pace degli altri, che però non viene indagato. Io stessa mi sono resa conto che forse, per comprendere meglio, a un soldato dovrei chiedere anche “come stai”». Bisogna esporsi dunque, ma conservando la precisione. Rigore e gestione delle emozioni sono quindi le basi del mestiere. «L’emotività non deve diventare il protagonista dei nostri racconti, perché una storia strappalacrime non modifica la comprensione dell’evento raccontato», chiarisce Mannocchi. E però aggiunge: «L’elemento sentimentale all’interno di una storia è comunque importante.  Però se l’emotività è uno dei cacciaviti nella cassetta degli attrezzi è utile, se invece diventa unica protagonista smette di esserlo» .

Dire il male – Trovare le parole per dire il dolore degli altri può essere difficile, ma i suoi reportage raccontano il male che c’è nel mondo. «Come nella letteratura, così nella realtà, è il lato del male che ti fa capire le cose», riflette. «Il male è più narrativo del bene perché ha più sfumature: nessuno nasce assassino, nessuno nasce trafficante, nessuno nasce foreign fighter». Secondo Mannocchi quindi, quello che il giornalismo deve fare è cercare di comprendere le falle delle cose. «Lo sforzo – dice – non sta nel dipingere il male assoluto, ma nel provare a capire come si è sviluppato, perché è solo così che si può arrivare a contrastarlo».

Una responsabilità di testimonianza – C’è una parola che viene in mente pensando al giornalismo di Francesca Mannocchi ed è responsabilità. Il suo modo di declinare questo concetto dice qualcosa di più su come la reporter intenda il suo lavoro. «Spesso capita, leggendo i giornali, di avere la sensazione che chi scrive lo faccia in funzione della vanità personale: c’è una grande crisi, ci sono anch’io, metto la fiche. In realtà il giornalismo non è questo», spiega Mannocchi. «Il mestiere non è presenza, ma capacità di veicolare un contenuto a una persona che non può essere dove stiamo. E soprattutto essere responsabile nei confronti di chi quelle cose ce le racconta, nel senso di una responsabilità di testimonianza», aggiunge. Secondo Mannocchi, nel fare giornalismo, «siamo responsabili di ogni patto di fiducia che le persone con cui lavoriamo e che ascoltiamo stringono con noi». Per onorarlo, bisogna trovare però le parole giuste per raccontare ad altri ciò di cui si è testimoni e «chiamare i sofferenti per nome».

Autore

Erika Sità

Nata a Soverato, in Calabria, il 07/08/1997, e laureata in Scienze filosofiche all'Università di Bologna. Giornalista praticante del XVI biennio della Scuola di giornalismo radiotelevisivo di Perugia.