Canapa industriale, un mondo di possibilità al di là dei luoghi comuni

Dall'alimentare alla cosmetica, passando per tessile ed edilizia: normative poco chiare e scarsi guadagni paralizzano la filiera della cannabis
L'Umbria specchio del Paese: per incentivare i numerosi utilizzi della pianta servono ricerca e innovazione, ma aumenta la distanza dai leader di un settore in rapida espansione

Olio, farina e birra, ma anche carta, fibra tessile e cordame. E poi calce per l’edilizia, bioplastiche e cosmetici: sono solo alcuni dei tanti prodotti derivati da una sola pianta, la canapa, della specie cannabis sativa. Lo stesso arbusto, i cui fiori vengono bruciati o vaporizzati per scopo ludico, presenta varietà autorizzate dalla legge, contenenti una percentuale irrilevante di sostanza psicoattiva. Sono proprio queste varietà a mettere in moto un universo complesso e variegato, quello della canapa industriale, distante anni luce dagli stereotipi associati allo stupefacente conosciuto col nome ‘marijuana’. La filiera della canapa è fatta di arterie principali ma pure di vicoli ciechi. Stefano Vitali, trentenne assisano, inizia ad esplorarla per curiosità. Nel 2016, va a cercare volumi sull’argomento nella biblioteca della Facoltà di Agraria di Perugia, ma ne trova solo uno risalente al 1888. Tra le pagine, un censimento dell’epoca: lo Stivale era il secondo produttore al mondo con 110mila ettari di coltivazione. Oggi sono circa 2000. Federcanapa, una storica associazione di settore, stima che in Umbria gli ettari dedicati alla canapa possano essere 200, ma un dato preciso non c’è.

Dal piccolo campo al tavolo del Ministero – Sei anni fa, Vitali e alcuni amici cominciano a gettare i primi semi in un piccolo campo di circa tremila metri quadrati. Per qualche tempo il gruppo è stato tra le fila degli “agricoltori fantasma”: chi coltiva le varietà di canapa certificate e inserite nel registro europeo non ha alcun obbligo di dichiarare la propria attività. La coltura di queste varietà è quindi libera e non viene censita in alcun modo. Il tavolo di filiera, istituito dal Ministero delle Politiche Agricole nel dicembre del 2020, sta provando ad aprire un pertugio in questo primo vicolo cieco. «Fare uno stato dell’arte – sottolinea Vitali – è già un primo passo in avanti». L’associazione Canapamo, fondata da Vitali nel 2017, è oggi tra i 48 membri del tavolo nazionale della canapa. «In un anno – ammette – si è fatto poco. Questa, però, è la prima occasione per fare una fotografia della situazione attuale e mettere nero su bianco le proposte di miglioramento».

La filiera umbra che non c’è – «La filiera regionale – spiega Vitali – rispecchia quella nazionale. Ci saranno una decina di aziende nel perugino e altrettante nel ternano, ma il settore non riesce a partire». Le problematiche sono diverse: normative poco chiare, assenza di impianti di trasformazione, mercato debole e ricerca che non riesce a stare al passo dei paesi più avanzati. «Oggi – aggiunge – chi coltiva non sa a chi vendere la materia prima». Il recente boom della commercializzazione della cosiddetta cannabis light, incoraggiato dallo spiraglio normativo della legge 242/2016, ha aperto qualche canale, ma resta un privilegio per pochi coltivatori. Ora che la bolla si è sgonfiata, la maggior parte delle aziende aprono e chiudono la filiera, dal campo al prodotto finito, ma con scarse possibilità di guadagno.

Limiti e difficoltà – Alberto Tamburo, imprenditore agricolo specializzato nell’allevamento di lumache, nel 2014 comincia a piantare nei terreni di famiglia sulle colline di Cantalupo, ma dopo tre anni smette. «Mi resi subito conto – spiega – che coltivare canapa era troppo costoso e non redditizio». Tamburo arriva a impiegare fino a cinque ettari per semi e fibra, ma il suo pragmatismo contadino gli indica i limiti: dai semi di scarsa qualità ai problemi di meccanizzazione della raccolta. «Non esiste una filiera industriale – aggiunge – perché nessuno ha investito in questo senso».

Quale futuro per la canapa – Tamburo, però, non si perde d’animo: nell’orto dell’azienda continua a far crescere qualche pianta che utilizza per le degustazioni e guarda al futuro. «Il seme ad uso zootecnico – dice – ha grandi potenzialità perché potrebbe sostituire la soia, garantendo carni migliori». In attesa di poter nutrire le sue galline con la canapa, Tamburo si batte affinché il CBD, sostanza non psicoattiva derivata dalla cannabis, possa ricevere il via libera per l’utilizzo alimentare. «È sicuramente meno complicato – conclude – che legalizzare la cannabis a uso ricreativo, ma dobbiamo sensibilizzare la politica».

Una legge per l’Umbria – L’attenzione di Tamburo è tutta rivolta alla proposta di legge regionale, depositata a fine 2020 dal capogruppo M5S Thomas De Luca. Tra le tante iniziative, il testo promuove due usi della canapa decisivi per l’ecosistema umbro. In primis, la bioedilizia per la ricostruzione nell’area del cratere sismico: la fibra interna della pianta, infatti, viene usata per produrre la canapa calce, un materiale altamente isolante ed ecosostenibile. Poi c’è la bonifica dei terreni contaminati nell’area della conca ternana: già, perché la canapa è una delle specie più studiate per la fitorimediazione, un sistema di risanamento della terra a impatto zero. A garantire il sistema di incentivi per la filiera ci sarebbero i fondi europei del Programma di Sviluppo Rurale. «All’inizio – ci racconta De Luca – erano tutti favorevoli, ma ora il dibattito si va polarizzando sul tema della legalizzazione, con il rischio di un ritorno ad approcci mistificatori». Per ora, il referendum ha paralizzato la discussione.

Autore

Luca Ferrero

Nato a Pescara il 20/05/1991. Laureato in Lettere Moderne e Scienze Storiche all'Università di Bologna. Exchange Student presso il Department of History del King's College di Londra. Giornalista praticante del XV biennio della Scuola di Giornalismo Radiotelevisivo di Perugia.