Liceo Galilei, come la “cittadella dei pazzi” diventò una scuola

Fino al 1978 il liceo perugino era un ospedale psichiatrico. «Quello che succedeva al suo interno non lo sapeva nessuno»
«C’è ancora un muro da buttare giù - racconta il regista Carlo Corinaldesi - le persone devono conoscere questi argomenti per capire da dove vengono»

Le pareti bianche e grigie, ricoperte ancora con l’intonaco anti graffio. Le finestre, alte, come occhi sul mondo, in certi casi ancora munite di grate. Oggi, però, nessuno vuole scappare. L’ex ospedale psichiatrico di Perugia da circa 30 anni è un liceo a pochi passi dal centro cittadino, all’interno del parco Santa Margherita. Una volta chi entrava nelle mura dell’ospedale difficilmente riusciva a uscirne migliore. Alcune erano persone con problemi psichici, altre no. Tutti, però, erano definiti “agitati”. Uomini e donne, di età diverse, internati anche a causa di una notte brava, un bicchiere di troppo o un litigio un po’ più acceso.

La “cittadella dei pazzi” – «C’era un muro di cinta con un cancello e quello che succedeva all’interno non lo sapeva nessuno», racconta Federico Cipiciani, cuoco dell’ospedale, nel documentario del 2009, “Dentro le proprie mura”, di Carlo Corinaldesi, regista ed ex studente del liceo. Le sue parole ci riportano indietro di molti anni. La struttura fu inaugurata nel 1824: sette padiglioni fra maschili e femminili, reparti di pazienti cronici e insanabili, laboratori di analisi, palazzine preposte alla vigilanza speciale, per un totale di 40 ettari di terreno. C’era anche una fattoria dove si coltivava e si allevavano animali e al cui interno ci lavoravano i ricoverati. Un mulino e un panificio garantivano l’autosufficienza. Un cinema, un teatro e una chiesa completavano il microcosmo sociale della “cittadella dei pazzi”. Nel 1940 nell’ospedale psichiatrico di Perugia vivevano circa 1400 pazienti.

Un paziente doveva essere uguale all’altro – Chi entrava come degente veniva spogliato di abiti e gioielli «Gli toglievano anche la fede dal dito – racconta nel documentario di Corinaldesi l’infermiera Pia Picotti – gli facevano fare un bagno e gli infilavano il camicione. Dovevano essere tutti uguali, tutti senza una personalità». I pazienti venivano contati: al mattino, prima di pranzo, dopo il riposo pomeridiano e dopo cena. I pasti erano organizzati con metodo scientifico. Le cucine lavoravano poche ore al giorno e con ingredienti ben diversi a seconda che i cuochi cucinassero per i dipendenti o per i pazienti. «La stessa quantità di carne che serviva per fare il sugo per sette medici e otto suore – testimonia il cuoco – ce la facevano usare per dare da mangiare a 700 pazienti». L’occupazione umbra negli anni ’60 era scarsa e, come raccontano molti ex dipendenti, l’ospedale «era un luogo ritenuto scabroso, dove nessuno voleva lavorare». Chi accettava, lo faceva perché ne aveva bisogno, per sfuggire al lavoro duro nei campi. C’è chi tra loro, però, non ha mai superato il trauma di aver dovuto assistere all’elettroshock. «Vederlo fare era pauroso, non sono mai riuscita a rimanere in quegli ambulatori fino alla fine. Mi sentivo svenire quando lo facevano senza anestesia, portando il paziente in uno stato epilettico», racconta Fiorella Petrella, ex infermiera.

La svolta – Nel 1978 in Italia è stata approvata la legge Basaglia, per la definitiva chiusura dei manicomi. A Perugia già dal 1965 un gruppo di persone tra medici, operatori sanitari, amministratori locali e gruppi sindacali, aveva dato vita a un “movimento” che, anticipando la legge, proponeva nuovi metodi alternativi di cura della malattia mentale. Una rivoluzione culturale che ne permise la successiva chiusura. Il film di Corinaldesi ha raccolto le testimonianze di chi ha vissuto quel mondo e ha raccontato l’evoluzione dei 13 anni che hanno preceduto l’abolizione degli ospedali psichiatrici. Furono aperti reparti di neuropsichiatria infantile, assunti medici con specializzazioni su precise patologie, fino a quel momento sconosciute e trattate tutte come schizofrenia. Cambiarono gli orari di pranzo e cena e ogni paziente fu dotato di forchetta e coltello e non solo del cucchiaio, con cui fino a quel momento si era adattato, mangiando tutto. La vera svolta, secondo l’allora presidente della provincia di Perugia, Ivano Rasimelli, si ottenne con la modifica dell’orario di lavoro degli infermieri: «Il personale doveva lavorare prevalentemente al mattino e lasciare il più possibile liberi i posti letto per i pazienti durante la notte – racconta nel documentario – I malati avevano finalmente la priorità. In pochi giorni l’ospedale psichiatrico di Perugia cambiò faccia».

«C’è ancora un muro da buttare giù» – Adesso in due dei padiglioni ormai dismessi dell’ex ospedale si svolgono le lezioni del liceo scientifico “Galileo Galilei”. Negli altri edifici ci sono aule dell’Università per Stranieri e in altri ancora ci sono gli uffici amministrativi dell’Azienda Sanitaria Locale. Molti studenti della scuola non conoscono la storia della struttura o di quelle che sono state le vite di chi ha vissuto lì dentro, ma vi ancora i segni sopravvissuti agli anni: gli angoli smussati, le finestre rialzate, fino a poco tempo fa i letti delle camerate negli scantinati. «C’è ancora un muro da  buttare giù – dice Corinaldesi – le persone, soprattutto le nuove generazioni devono capire da dove vengono. Fa parte del contesto sociale perugino». A distanza di più di 40 anni dall’abolizione in Italia dei manicomi, secondo il regista, non sono rimasti chiusi solo gli ospedali psichiatrici, ma anche la mentalità di chi vive il territorio. Una storia che a Perugia è rimasta finora nell’ombra.

Autore

Mariafrancesca Stabile

Nata a Copertino (Lecce) il 3 settembre 1992. Diplomata al liceo classico "Giuseppe Palmieri" di Lecce, è laureata in giurisprudenza presso l'Alma Mater Studiorum di Bologna. Giornalista praticante del XV biennio della Scuola di Giornalismo Radiotelevisivo di Perugia.