Se il popolo in quarantena riscopre la lentezza

Nel mondo quattro miliardi di persone sono confinate in casa e obbligate a guardarsi dentro. Un’inedita occasione di introspezione ma anche un potenziale pericolo per la mente
Gli psichiatri: «L’euforia della prima fase sta già lasciando spazio a sentimenti di rabbia e tristezza. Quando tutto sarà finito dovremo confrontarci con nuove fragilità e nuovi pazienti»

«Era l’alba sugli umidi colli, e la luna danzava ancora assorta. Ognuno amava la propria casa come una scoperta». I versi del perugino Sandro Penna spiccano fra le tante parole che gli italiani si scambiano in questi giorni di isolamento. La pandemia in atto ha messo in pausa, in maniera inedita e forse irripetibile, la moderna società prestazionista, educata al culto della velocità e dell’attivismo. Quattro miliardi di persone, confinate fra le mura domestiche, sono invitate a rinunciare alla quotidiana ricerca del loro posto nel mondo. E a riconsiderare, quando possibile, i bisogni della vita.

Elogio della lentezza – Nel fortunato saggio “La società della stanchezza” (Nottetempo, 2012), il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han rifletteva sul disagio dell’individuo nell’era della competizione, caratterizzata dall’eccesso produttivo e dalla disponibilità universale di merci e persone. Due anni dopo il neuro-scienziato italiano Lamberto Maffei portava alle stampe “Elogio della lentezza” (Il Mulino), divenuto a sua volta un piccolo classico. «In questa frenesia visiva e cognitiva – scriveva Maffei – dimentichiamo che il cervello è una macchina lenta, e nel tentativo di imitare le macchine veloci andiamo incontro a frustrazioni». Forse è per questo che molti cittadini, di fronte alle misure contenitive, più che da paura sono stati investiti da una sorta di commozione collettiva. Magari non solo perché sentivano di vivere un momento “storico”, “cinematografico”, ma perché avvertivano un senso di liberazione: per una volta c’era un problema più grande degli affanni di ogni giorno.

L’occasione – Certo, sono tante le persone che continuano a lavorare, e che anzi vedono le proprie responsabilità moltiplicate dall’emergenza. Ma sono molte di più quelle che hanno dovuto sospendere le proprie abitudini, rallentare, cercare modi per impiegare un tempo sempre scarso e ora persino esorbitante. L’umanità del fare, del senso di colpa calvinista, è chiamata a sperimentare il suono dolce di una lentezza forzosa. Persino a riscoprire l’importanza del dormire, se è vero che, come ha denunciato Arianna Huffington nel best-seller “The Sleep Revolution” (Harmony, 2016), la privazione del sonno è una piaga della nostra epoca.

I rischi dell’Io – Ma può questo “tempo ritrovato” fare male alla mente? «Il contatto prolungato con le proprie emozioni può essere tollerato solo se la persona ha strumenti intellettuali pronti – spiega Luigi Dattoli, psichiatra in formazione presso il Policlinico Gemelli di Roma e membro di un gruppo di ricerca sul tema –. Il problema sono coloro che raramente vengono a contatto con il proprio mondo interiore, e quindi individui più frenetici, abituati, anche come meccanismo di difesa, a svolgere tante attività». Per loro la quarantena imposta si sta rivelando più difficile, facendo sorgere problematiche come disturbi del sonno, squilibrio alimentare, incapacità di adattamento, sbalzi d’umore, ansia. «Questi soggetti – aggiunge – si stanno mostrando anche i più attivi e polemici sui social network».

Le fasi del lutto – Il mondo dei social, insieme ai media, è fra gli elementi usati dalla psichiatria per analizzare in via indiretta la reazione sociale al coronavirus. «Nei primi dieci giorni della quarantena – nota Dattoli –  si è notato un grande entusiasmo: tutti si sentivano parte del tutto, e quindi postavano messaggi positivi, condividevano i loro piatti, facevano satira. Ora si sta già virando su contenuti di rabbia, sfiducia o attacco reciproco fra utenti». Questo mutamento coinciderebbe con le fasi del lutto: il primo approccio è quello della negazione, in cui si vive in una sorta di bolla. Il secondo è quello in cui si realizza la perdita e arrivano le sensazioni negative: rabbia, angoscia e infine tristezza. «L’inizio della quarantena, in fondo, è stato per tutti un grosso evento traumatico, un lutto».

Il dopo – Come sarà la prossima fase? «Difficile dirlo – conclude Dattoli – ma molto dipenderà dai numeri e dalla gestione dell’epidemia. Quel che è certo è ciò che ci aspetta alla fine dell’emergenza, perché questo enorme fenomeno non sarà irrilevante. Noi psichiatri non solo torneremo alla normalità e ai nostri vecchi pazienti, ma dovremo fare i conti con le nuove problematiche che saranno insorte fra le persone comuni».
In un tempo di stanchezza, solitudine e introspezione possono essere una grande opportunità. Speriamo non ci costino troppo care.

*Immagine in apertura: John William Waterhouse, Dolce far niente (1880).

Autore

Giovanni Landi

Giovanni Landi è nato ad Agropoli nel 1990. Laureato in Giurisprudenza, è dottore di ricerca in Scienze Giuridiche. È giornalista praticante presso la Scuola di Giornalismo Radiotelevisivo di Perugia.