Vida Merhannia ha la faccia stanca e lo sguardo che spesso si vela di tristezza, scandisce con calma le parole mentre racconta, al Festival del Giornalismo di Perugia, la storia di suo marito, lo scienziato Ahmadreza Djalali, condannato a morte nel 2017 in Iran. Lo scienziato, che ha lavorato come ricercatore in Italia e in Svezia, è stato arrestato sei anni fa e incarcerato con l’accusa di spionaggio. Lei, la sua famiglia e Amnesty International si stanno battendo perché quel cappio, sempre più stretto, non si stringa ancora di più al collo di Djalali. «Tre giorni fa mio marito è andato alla farmacia del carcere per ritirare i suoi farmaci, ma gli hanno dato solo due confezioni su tre – racconta – e lo hanno picchiato lì, nella farmacia».
Vessazioni sistematiche – Il portavoce di Amnesty International Italia, Riccardo Noury, conferma che questi trattamenti sono sistematici in Iran, come lo sono le confessioni degli accusati, estorte dietro torture o promesse di scarcerazioni, registrate e poi mandate in onda sui principali telegiornali e canali d’informazione nazionale. «L’Iran è il secondo paese al mondo per numero di esecuzioni dopo al Cina. Nel 2021 ce ne sono state più di 250 – dice Noury – da inizio anno oltre 108, più di una al giorno». La maggior parte di esse riguarda casi di droga o omicidio e una persona accusata su cento ha meno di 18 anni quando gli viene contestato il presunto reato. Oltre a questa pratica diffusa da sempre, negli ultimi anni si stanno moltiplicando gli omicidi di natura politica. Vengono presi di mira soprattutto gli oppositori politici e una strategia consolidata del governo di Teheran è quella di accusare i cittadini con doppio passaporto, iraniano ed europeo. «Vengono usati come pedine di scambio per ottenere ad esempio vantaggi diplomatici e questo è molto preoccupante», commenta il portavoce di Amnesty.
Sei anni di carcere – «Mio marito non vede i figli da sei anni – dice Merhannia mentre guarda negli occhi il pubblico che la ascolta a San Francesco al Prato – era in viaggio di lavoro e non è più tornato». Lo scienziato qualche mese prima aveva rifiutato la proposta del governo iraniano di lavorare per l’intelligence e spiare i governi europei. Il no deciso di Djalali lo ha probabilmente condannato a morte. «Dopo sette mesi di isolamento e tre di sciopero della fame – racconta ancora – Ahmadreza è stato operato all’intestino e il giorno successivo riportato in carcere. Noi non possiamo chiamarlo o vederlo, ci dicono che sta bene ma io so che ha perso venti chili». Ufficialmente contro di lui non ci sono prove e non ha mai confessato, eppure entra ed esce dall’isolamento e resta un condannato a morte. «Il mio figlio più piccolo aveva 4 anni quando il padre è stato arrestato. Mi chiede spesso dov’è e quando lo potrà vedere, ma io non posso rispondere perché non so nulla». Vida Merhannia chiede al governo italiano di intervenire e di aiutare quello svedese a sbloccare la situazione, perché «non si tratta più di rispetto dei diritti umani ma di un piano politico preciso e per smuovere la situazione serve che un altro governo si muova».