«Mi trovavo in un villaggio dell’India del Nord ed improvvisamente la notizia arrivò da me – racconta al Festival del Giornalismo, Monika Mondal, giornalista freelance indiana impegnata nella copertura di temi ambientali – una donna mi chiese di andare in casa sua e mi offrì un bicchiere d’acqua. Il liquido era giallo, e vi assicuro che quella non era birra! Era il risultato di una politica sconsiderata dell’industria che si trovava non lontano da lì». Il confine tra raccontare un problema ambientale e mettere in difficoltà l’azienda che lo produce, la stessa azienda che dà lavoro a gran parte del villaggio, è una scelta molto difficile. «Il ruolo del giornalista – spiega la Mondal – è proprio quello di trovare un giusto equilibrio tra i due problemi: quello ambientale e quello occupazionale».
Mediatore tra la dimensione internazionale e locale – Raccontare gli effetti devastanti delle crisi climatiche sulle comunità locali è complesso. Tanto quanto comunicare le decisioni prese a livello internazionale per ridurre l’impatto dei cambiamenti climatici. «I negoziati sono sempre molto noiosi – scherza Patrick Greenfield, reporter ambientale del The Guardian – come esseri umani ci interessa più capire come sopravvivremo nei prossimi anni».
L’assist della cronaca – Un buon compromesso per rendere “popolari” i temi ambientali è analizzarli in corrispondenza con i grandi eventi della cronaca. «Quando hai questioni grandi come la guerra in Ucraina – argomenta Angela Dewan, editor del team internazionale che copre le crisi climatiche per la CNN – puoi veramente parlare alle persone. Noi, così, abbiamo potuto affrontare la questione dell’urgenza di disporre di energie rinnovabili».
“L’infantilizzazione” – Il pericolo però, sottolinea Catherine Mackie della Thomson Foundation, associazione che si occupa di costruire un giornalismo più efficace, è sempre quello di “infantilizzare” il lettore, cioè non considerarlo all’altezza di comprendere, senza l’urgenza della cronaca, temi di importanza fondamentale.