di Roberto Spadola e Alessandro Ferri
Esercitare la libertà di stampa sotto un regime è difficilissimo. Eppure, nonostante l’Afghanistan viva dallo scorso agosto i suoi giorni più oscuri, giornalisti, reporter e fotografi cercano di continuare a raccontare il paese, sfidando le regole severissime imposte dal regime talebano. Alcuni di loro sono intervenuti durante il Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia.
Bilal Sarwary segue l’Afghanistan per la BBC dal 2001 «Ho iniziato subito dopo gli attacchi dell’11 Settembre. Il periodo più duro della mia vita è stato negli ultimi 3 anni, quando ho visto una campagna di eliminazione dei giornalisti da parte dei Talebani». Il suo nome è finito su 5 diverse liste nere, ma fortunatamente ha continuato il suo lavoro, indenne. «Continuo a scrivere di questo paese perché non possiamo cedere, anche se i miliziani entrano in redazione armati fino ai denti».
Ali Latifi, che copre l’Afghanistan viaggiando in 15 diverse province e collabora con Al Jazeera, ha girato il mondo prima di tornare nel suo paese. «Sono tornato nel 2011 e mi sono trasferito definitivamente nel 2013: ho subito capito che, da quel momento, la mia vita sarebbe cambiata». Nonostante fosse considerato “scomodo”, ha cercato di rimanere nella sua terra. Nel 2017 è stato costretto ad andar via, minacciato dai fondamentalisti. «L’anno scorso è stato il primo in cui i media sono stati realmente liberi, ma è durato poco. Tutti i giornalisti ora sono in pericolo e subiscono minacce o torture fisiche, quando non vengono uccisi».
Gli fa eco Elyas Nawandish, direttore del giornale “Etilarooz” che si trova in Albania e interviene da remoto: «Quando mi hanno telefonato per dirmi che dei ragazzi che lavoravano con me erano stati arrestati, ho capito che erano stati torturati in modo indicibile». Il lavoro dei reporter afghani è cambiato radicalmente: Nawandish si trova in Albania come rifugiato e gran parte della redazione di Etilarooz è stata costretta a fuggire in altri Paesi. Ora non possono più coprire le news quotidiane, né parlare del parlamento. Possono solo lavorare online. «Per i Talebani ci sono solo due opzioni: o con loro, o morto».
Il regime afghano ha preso di mira le donne, comprese le giornaliste, che però non si sono fermate davanti alle minacce. «Quando sono andata in Afghanistan – spiega la fotografa Fatimah Hosseini – ho voluto approfondire le storie, per raccontare un Paese che non è solo guerra». Fatimah è scesa in strada per cercare la bellezza e combattere i pregiudizi. Una delle battaglie più grandi è stata convincere i suoi committenti ad accettare foto di donne senza il burqa. «Non le volevano perché il mondo immagina le afghane solo con il velo, ma non è così. Non voglio che il mio Paese venga pensato esclusivamente come una zona di guerra».
Le storie di fotografe e giornaliste come Hosseini sono però una triste eccezione. Il futuro dell’Afghanistan, almeno sui media, sembra già scritto. «Penso che molto presto i giornalisti stranieri avranno grosse difficoltà ad avere visti d’ingresso in Afghanistan – conclude Sarwary – , perché sono meno controllabili e perseguibili. È molto triste, perché il mio paese sparirà dai media internazionali, come già sta succedendo». L’Afghanistan, secondo il reporter della BBC, è un chiaro esempio di fallimento della politica contemporanea. «Ci sono stati errori di pianificazione enormi che hanno permesso ai Talebani di riprendersi tutto». L’atteggiamento occidentale non ha aiutato il popolo afghano. «Ci hanno abbandonati, senza prendere posizione o imporre sanzioni, come stanno facendo ora per difendere il popolo ucraino».