«Io specializzanda nell’inferno dei reparti Covid»

Appena entrata in ospedale affronta l’emergenza in prima linea. In una notte arriva a gestire anche quaranta pazienti
Il rappresentante specializzandi nel CNSU: «Sfruttati e sottopagati, non chiamateci eroi»

Venti minuti. Tra camice sterile, guanti, mascherina e visiera è questo il tempo che ci vuole per indossare tutte le protezioni necessarie ad entrare nei reparti Covid. Un processo che gli addetti ai lavori chiamano vestizione, proprio come quella degli eroi omerici che si preparavano alla battaglia. Mai termine fu più appropriato. Perché quella che gli specializzandi combattono è una vera e propria guerra. Contro un nemico tanto sconosciuto quando ormai, purtroppo, familiare. Negli ospedali della Lombardia ogni giorno è una corsa contro il tempo: «Quando al cambio turno ci passiamo le consegne la prima domanda è sempre “chi è morto oggi?”». A parlare è Lavinia Pitotti, una specializzanda di medicina interna al Policlinico San Matteo di Pavia, centro di riferimento per il Covid da fine febbraio. Classe 1992, quando è scoppiata la pandemia aveva iniziato da appena un anno il lavoro in ospedale.

Una malattia subdola – «Da allora è cambiato tutto, niente è più come prima. Il clima è tesissimo tra colleghi e con i superiori – dice Lavinia – facciamo continue riunioni per aggiornamenti sulle terapie farmacologiche e sulle linee guida da seguire». Da specializzanda di medicina interna si è occupata di cuore, fegato, polmoni, ma niente l’ha mai lasciata impotente come il Coronavirus. «Le condizioni del paziente possono precipitare in pochi minuti – racconta – e tu non puoi fare altro che chiamare il rianimatore. Quei momenti sono un dramma perché da medico ti senti completamente impotente, pensi che tu per quella persona non puoi fare più niente».

In trincea – Lo scenario dei reparti è quello di un vero e proprio campo di battaglia dove non è possibile abbassare la guardia. «Questi malati richiedono un’alta intensità di cura – spiega – le notti sono il momento peggiore: l’ultima volta sono arrivata a controllare la saturazione dell’ossigeno di un paziente anche venti volte in dodici ore di turno, non ho avuto nemmeno il tempo di sedermi per aggiornare le cartelle». Di mangiare o bere non se ne parla. Una volta indossati i dispositivi non è possibile nemmeno andare al bagno. Ma come si fa a stare dodici ore così? «Ormai nemmeno te ne accorgi – dice Lavinia – forse non hai nemmeno il tempo per farlo e poi rischieresti di esporti alla contaminazione». Eppure le misure di protezione sono tutt’altro che comode: «La mascherina pizzica sul volto e dopo tanto che la porto mi provoca irritazione – racconta –, poi ti gira la testa e ti manca l’aria perché con le valvole la quantità di ossigeno che entra diminuisce. Io sono anche miope e non potendo indossare le lenti per motivi di sicurezza, ho gli occhiali che premono sulla fronte costantemente».

Lavinia Pitotti è una specializzanda di medicina interna presso il Policlinico San Matteo di Pavia

Carichi emotivi – In realtà a pesare di più non sono i dispositivi scomodi o i turni massacranti quando il carico emotivo di ogni giornata. «Vedi pazienti di tutte le età e pensi che potrebbero essere tuo padre, tua madre, tuo fratello – racconta ancora Lavinia – anche se ora il contatto umano è praticamente azzerato, io mi affeziono sempre alle persone. Non dimenticherò mai gli occhi rossi di un uomo in condizioni critiche, un’immagine straziante. Gli tenevo la mano mentre saliva il rianimatore e contavo i secondi sull’orologio pregando che arrivassero in tempo per salvarlo». Di episodi come questi Lavinia ne vive a decine ogni giorno ma c’è qualcosa di ancora più straziante: parlare con i parenti dei defunti, con quelli che non si rassegnano, che chiamano ancora nonostante non ci sia più nulla da fare. «Ricordo di un ragazzo che ha telefonato per cinque giorni di fila chiedendo se fossimo sicuri che si trattasse proprio di suo padre». Con le nuove direttive nazionali per l’emergenza non è possibile dare l’ultimo saluto ai propri cari: «Tu diventi l’unico intermediario, fai quella chiamata che nessuno vorrebbe mai ricevere e non hai nemmeno gli strumenti per aiutare ad attutire il colpo, gli occhi, il contatto umano – dice – la cosa terribile è quando si ha a che fare con anziani che non hanno i cellulari, non sentono bene…Adesso di queste chiamate ne facciamo così tante, eppure non si è mai abbastanza preparati per dire certe cose». In Lombardia il dramma è più forte che altrove: «Qui abbiamo visto intere famiglie decimate, dovevi comunicare ai parenti un bollettino di guerra».

Soluzione d’emergenza – «Nei primi momenti gli specializzandi sono stati visti come medici di serie B – spiega Lucilla Crudele, specializzanda nel pronto soccorso del Policlinico di Bari – ma quando la situazione è diventata critica siamo stati messi subito in prima linea». Da  rappresentante del Segretariato italiano dei giovani medici nel CNSU (Consiglio Nazionale degli Studenti Universitari) racconta che sobbarcare i giovani appena entrati in ospedale di tante responsabilità è stata una scelta obbligata per il nostro paese: «In Italia non c’erano alternative, il sistema altrimenti sarebbe collassato – dice – si è provato a fare bandi per medici volontari ma ad esempio nell’ospedale dove lavoro io sono andati pressoché deserti». Una sanità, quella italiana, che vive una crisi cronica tra mancanza di fondi e soprattutto di specialisti «Questo perché con i tagli – aggiunge Lucilla Crudele – le borse di specializzazione sono sempre meno e l’importo non è adeguato all’aumento del costo della vita». Le borse, infatti, sono ferme dal 2007: 25mila euro lordi all’anno. Su questi grava la contribuzione Inps, l’Enpam, la quota di iscrizione all’ordine dei medici e il pagamento delle tasse universitarie. Dal 2014 poi il concorso non è più locale ma nazionale il che ha costretto tanti a spostarsi lontano da casa, con il conseguente aumento delle spese che questo comporta. Un importo fisso che non tiene conto nemmeno di notti, indennità di guardia o festivi. «Gli specializzandi sono la vera forza lavoro degli ospedali – chiosa Lucilla Crudele – ora che c’è più bisogno sta venendo fuori la verità di anni, ma gli specializzandi ci sono sempre stati e sono sempre stati sottopagati, sfruttati e tenuti in bassa considerazione rispetto alla classe medica».

Persone dietro le mascherine – Uno scenario confermato da chi affronta l’emergenza ogni giorno come Lavinia: «Negli ospedali universitari sono gli specializzandi che fanno il lavoro sporco, che hanno più contatto umano con il paziente, ma i momenti più difficili paradossalmente sono quelli che vivi fuori dall’ospedale». Quando dopo dodici ore di lavoro torni a casa, sfinita, magari chiami i tuoi genitori ma non gli racconti tutto per non farli preoccupare: «Se anche mi sentono con la voce un po’ stanca vanno subito in allarme – ride – non abbiamo mai parlato così tanto come in questi mesi, nemmeno quando abitavo con loro». Adesso quel poco tempo che ha per sé Lavinia lo divide tra sentire le persone care e dormire, o almeno provarci: «Da quando è iniziata questa pandemia fatico a prendere sonno e anche se sono stanchissima dormo male, mi giro nel letto, ripenso a tutto quello che ho vissuto durante il giorno e che magari non mi sono data nemmeno il tempo di elaborare – racconta – mi è capitato più volte di svegliarmi di soprassalto la notte perché non riuscivo a respirare, mi mancava l’aria e d’improvviso pensavo “devo mettermi il casco”, come quello che hanno i pazienti». È la notte il momento più brutto della giornata.

Autore

Rebecca Pecori

Nata a Roma il 19/02/1994. Diplomata al Liceo classico Torquato Tasso di Roma. Laurea Magistrale in Filosofia morale presso l'università La Sapienza di Roma. Giornalista praticante del XIV Biennio della Scuola di Giornalismo Radiotelevisivo di Perugia.