Fausto Bertinotti: «I miei 80 anni da sindacalista»

Il leader di Rifondazione comunista ed ex presidente della Camera ripercorre una vita consacrata alla politica
«Sono stato fortunato, ma il mio popolo non c’è più. Far cadere Prodi? Una medaglia»

Cavalli e cavallucci, di tutte le dimensioni. Libri a migliaia, fra cui i tanti scritti da lui. E poi cuscini arancioni e busti di Mao («Ma non sono mai stato maoista»). In attesa di compiere ottant’anni, e appena prima che scoppiasse la tempesta, Fausto Bertinotti ci ha accolto nella sua casa di Roma, un elegante appartamento in via Regina Margherita, per un bilancio di un’esistenza dedicata alla politica.
Nato a Milano il 22 marzo del 1940, dopo la militanza socialista entra in Cgil a 24 anni e poi nel Partito Comunista Italiano. Nel 1994 è nominato segretario nazionale di Rifondazione comunista. Dal 2006 al 2008 è stato presidente della Camera dei Deputati, prima di ritirarsi dalla politica attiva dopo le elezioni del 2008.
Sarà l’atmosfera, la cortesia, l’agenda ancora scalpitante, ma nel nostro incontro tutto è sembrato parlare di un uomo sereno, per cui le gioie del privato compensano le delusioni sul mondo.
Che bilancio fa della sua vita?
«Sono stato molto fortunato. Come persona e come generazione. Abbiamo potuto vivere in una realtà senza la guerra, e mio padre ne aveva vissute due, prima in trincea e poi sotto i bombardamenti. Vivere in una parte del mondo e in un tempo senza guerra dà alla vita un carattere di fortuna».
Questa fortuna lei l’ha consacrata alla politica.
«È una passione che mi attraversa da sempre. Che Guevara parlava di “passione durevole”. Poi c’è un mestiere della politica, e io l’ho frequentato prima da sindacalista, per oltre trent’anni, poi da politico e infine nelle istituzioni. Come tutti i mestieri, però, termina a una certa età. Posso dire di aver fermato la mia corsa a tempo debito».
Lo ha fatto anche a seguito di una sconfitta importante, quella del 2008.
«Certo. Rosa Luxemburg diceva che la sconfitta è un modo di vedere più lucidamente le cose. E infatti ho capito di aver avuto un’altra fortuna: aver vissuto una stagione in cui non dovevamo inventarci nulla, perché avevamo ereditato la meta. Quella meta era il socialismo, cioè una società di liberi e uguali. “La nostra patria è il mondo intero, la nostra legge è la libertà”. Questo ci ha consentito di fare il cammino».
E dove siete arrivati?
«La meta è il percorso. Dice Kavafis in Itaca, quando sarai arrivato a destinazione, ti sarai fatto vecchio e saggio e avrai capito che quello che conta non è la meta ma il viaggio. E il viaggio è stato davvero straordinario.
La sua famiglia che ruolo ha avuto in questo percorso?
«La mia famiglia, a cui sono legatissimo, non è leggibile fuori dal rapporto con la politica. Pubblico e privato si sono uniti».


Si è mai pentito di aver fatto cadere il primo governo Prodi?
«Quella è una medaglietta sulla mia giacca. Abbiamo avuto coraggio, ed è un termine di cui non abuso. Il nostro mondo, purtroppo, leggeva il governo Prodi come un governo di sinistra. Ma non lo era. Noi avevamo fatto un grande atto di generosità: appoggiamo quell’esperienza, consentendole di nascere, senza chiedere in cambio nulla, né un ministro, né un sottosegretario, né un sotto-sottosegretario, né un posto alla Rai. Nulla. Però ovviamente avevamo chiesto delle cose. Non per noi ma per i lavoratori».
Per esempio?
«Prendiamo una misura simbolo: la riduzione dell’orario di lavoro. Ha dentro tante cose: distribuzione, eguaglianza, lavoro come occasione invece che fatica. Jospin in Francia aveva introdotto una legge simile e criticato i parametri di Maastricht. Noi chiedemmo al governo di allinearsi a lui, ma la risposta fu no. Poi si arrivò a un bivio con la nascita della moneta unica. Bisognava decidere in sostanza che direzione far prendere all’Europa, e fu scelta quella sbagliata».
Uscire dalla maggioranza fu una decisione sofferta?
«Lo abbiamo fatto per salvare una soggettività politica non omologata, che stava fuori dai giochi del potere e pensava a un futuro diverso. Un futuro che incontrammo nel 2000 nel gigantesco movimento di critica alla globalizzazione, mentre quelli del governo Prodi erano dall’altra parte».
Molti le dicevano: è sempre meglio un governo di centro-sinistra che di centro-destra.
«Questa per me è un’idea catastrofica. Ad essa si deve molto del successo delle idee di Salvini e dei populismi. È un approccio che ha rotto il rapporto fra la sinistra e il suo popolo. L’Umbria lo dimostra: per anni la sinistra ha governato con onore, ma oggi vince la destra. Perché? Perché gli ultimi governi hanno abbandonato la gente comune. Non solo in Italia, sia chiaro, ma in tutt’Europa».
Non le piace quest’Europa?
«Oggi l’Unione non parla a nessuna realtà popolare. Anche gli europeisti come me non possono che gridare tutta la loro delusione per quest’Europa della disuguaglianza, oligarchica e mercantilista. Si poteva imboccare un’altra strada, ma non lo si è fatto».


Torniamo un attimo a lei. Le dispiace essere descritto come persona mondana?
«È una cosa così stupida che all’inizio mi ha amareggiato. Per chi ha vissuto parte della sua vita davanti ai cancelli di fabbrica è triste. Ma poi ho capito la ragione politica: abbiamo dato fastidio al potere e il potere si è vendicato in qualche modo. Pazienza, non farò la vittima».
Ma frequenta o no i salotti della Roma bene?
«Io frequento tutti, i luoghi bassi e i luoghi alti. Penso che l’umanità vada cercata ovunque, e si possa trovare in un centro sociale, che io frequento, così come nelle case di amici benestanti, chiamateli pure salotti. Penso che il settarismo sia una malattia grave: vedere l’altro come un nemico».
Ci dica del suo rapporto con l’Umbria.
«È un rapporto a più lati. Uno contingente: passo a Massa Martana, nella mia casa di campagna, molti dei weekend primaverili ed estivi. Poi, nel medio periodo, c’è la mia storia sindacale e politica, con gli incontri nelle industrie, acciaieria di Terni e Perugina, e coi rispettivi operai e associazioni. Infine un rapporto lungo con l’Umbria francescana, i cui tratti ancora resistono. Non si può attraversare l’Umbria senza essere permeati dal francescanesimo».
A proposito, le cronache parlano spesso di una sua crescente spiritualità.
«In realtà con lei è un rapporto permanente. Ho iniziato a fare politica con una piccola rivista di dialogo fra marxisti e cristiani. Questo dialogo è un elemento costitutivo di tutto il mio percorso, rafforzato dalla collaborazione fra Cgil, Cisl e Uil, in un’epoca dove sembrava tutto possibile, anche il sindacato unitario. A Torino, Cgil e Cisl erano diventati quasi indistinguibili. E poi gli incontri con personalità come Don Milani, Monsignor Bettazzi, il futuro cardinale Pellegrino, Papa Giovanni, Papa Wojtyla, la straordinaria esperienza di Papa Francesco».


Dove si incontrano socialismo e cattolicesimo?
«In particolare nell’universalismo francescano. Siamo tutti figli dello stesso uomo e della stessa donna. L’idea per cui la pace è la dimensione indispensabile per costruire il futuro dell’umanità, e dentro la pace, la fratellanza».
Ora crede in Dio?
«Rimango il non credente che sono sempre stato. Ma come diceva un filosofo, “ciò che si produce nella ricerca di Dio investe anche coloro che in Dio non credono”».
Come riempie le sue giornate?
«Tengo incontri e lezioni in scuole e università. Faccio tante conferenze, forse troppe. Da dodici anni dirigo la rivista Alternative per il socialismo, che richiede un grande impegno. E poi frequento molto il mondo cattolico, per esempio Comunione e Liberazione, che ho scoperto come un popolo di grande interesse».
Il Palazzo non le manca?
«Per nulla. Quello che mi manca è il rapporto con le persone, con la comunità. L’assemblea in una fabbrica o in una sezione di partito, il dibattito che precede un congresso, la costruzione di un documento, persino il dissenso».


Le è piaciuto fare il presidente della Camera?
«Spero di averlo fatto secondo Costituzione, ma di certo senza la passione con cui ho fatto il sindacalista e il segretario di partito, ruoli per cui ho avuto un’identificazione totale. Le cariche istituzionali, giustamente, chiedono un elemento di distacco».
Che ne pensa del taglio dei parlamentari?
«Lo trovo in coerenza col massacro di democrazia condotto negli ultimi venticinque anni. Tutto è costruito sul governo: voti di fiducia e decretazione compongono la stragrande maggioranza della produzione parlamentare, un parlamento senza parlamento. Come la parabola di Calvino: da barone rampante, a visconte dimezzato, a cavaliere inesistente. Siamo al cavaliere inesistente».
E le sardine?
«Mi piacciono molto. Non tanto per quello che dicono i loro rappresentanti, che mi interessa relativamente, quanto per il fenomeno della piazza, della strada: la capacità di costruire partecipazione popolare».


Nell’ultimo periodo la sua casa è stata Rifondazione comunista. Si può dire che non le sia sopravvissuta.
«Vede, noi di Rifondazione abbiamo commesso errori ma un merito lo abbiamo: aver protratto oltre il tempo storicamente compatibile l’idea che potesse ancora esistere una formazione politica europea sotto il cielo del comunismo. Questa storia purtroppo era finita col Novecento: con la sconfitta del movimento operaio ad Ovest e col fallimento delle esperienze post-rivoluzionarie a Est. Sarebbe meglio chiedersi come abbiamo fatto a traghettare quella storia oltre il Novecento, non perché sia finita».
Insomma, avevano ragione quelli della svolta della Bolognina?
«Avevano radicalmente torto. Hanno pensato che si potesse cambiare il nome a un partito senza reinventare una prospettiva. Hanno disfatto una comunità di donne e di uomini legati da un disegno, da un sogno. E le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: quella comunità non c’è più. Invito ad ascoltare la canzone di Gaber “Qualcuno era comunista”. C’è dentro tutto. C’è dentro cosa volesse dire, in quegli anni e in Italia, essere comunisti».
Nella vita è stato tante cose. Quando non ci sarà più, come vorrebbe essere ricordato?
«Su questo non ho dubbi: come un sindacalista».

Autore

Giovanni Landi

Giovanni Landi è nato ad Agropoli nel 1990. Laureato in Giurisprudenza, è dottore di ricerca in Scienze Giuridiche. È giornalista praticante presso la Scuola di Giornalismo Radiotelevisivo di Perugia.