Il workers buyout, un modo per sconfiggere la crisi

Per sfuggire alla disoccupazione, i lavoratori scelgono sempre più spesso di riunirsi in cooperativa per portare avanti la produzione
Una scelta coraggiosa perché decidono di investire nel proprio futuro. Così sfidano la crisi, che tra il 2008 e il 2014 ha portato in Italia a un numero record di fallimenti aziendali

Dalle ceneri di un’azienda privata, in crisi o fallita, non ci si aspetterebbe nulla di buono. Invece, può nascere una cooperativa gestita dagli stessi lavoratori che rischiavano di perdere il posto. Il workers buyout è un’operazione finanziaria che permette ad un’impresa in serie difficoltà di continuare la produzione. Per questo rappresenta un modo per resistere alla crisi economica e alla disoccupazione, invertendo la dinamica fallimento-chiusura. Decidere di iniziare un workers buyout non è mai semplice perché un lavoratore passa dall’essere un dipendente ad avere, insieme agli altri soci, oneri e onori di un imprenditore.

Le fabbriche ai lavoratori. Intuizione dal basso verso l’alto – A partire dal 1973, tra la crisi del petrolio, l’ondata di fallimenti industriali e di disoccupazione, in Italia ci furono alcuni casi di fabbriche occupate dai dipendenti che provavano a farle ripartire. Fu soprattutto il settore editoriale a sperimentare questa forma di recupero dell’azienda. Nel febbraio del 1985, il Parlamento approvava la cosiddetta Legge Marcora, dal nome del senatore Giovanni Marcora. Era un ex partigiano e fu uno tra i fondatori della corrente della Dc “Sinistra di Base”. Fu lui a raccogliere quell’intuizione venuta dal basso e a scrivere un testo di legge, poi ampliato durante il primo governo Craxi, che prevedeva la possibilità per i lavoratori di investire gli ammortizzatori sociali per far ripartire l’impresa che avrebbe dovuto licenziarli.

Dal privato alla cooperazione – Con questa legge nasceva anche l’Istituto finanziario Cooperazione Finanza Impresa (CFI), promossa dalle più importanti centrali cooperative e che gestisce i fondi per aiutare le neonate cooperative: una parte dei finanziamenti arriva dal ministero dello Sviluppo Economico, l’altra invece, dalle 270 aziende autogestite che confluiscono in CFI. È il mutualismo delle cooperative ottocentesche, in versione 2.0. L’altro grosso investimento però, lo fa il lavoratore che investe il proprio Trattamento di fine rapporto o Naspi nel capitale sociale della cooperativa e assume su di sé il rischio d’impresa. Anche per questo, non tutti se la sentono di iniziare questa esperienza.
Nel 2001 l’Italia ha dovuto fare una serie di modifiche alla legge dell’85 per rendere il workers buyout idoneo alle regole europee, che non ammettono aiuti di Stato. Non solo c’è riuscita, ma è diventata anche un modello internazionale (dall’Europa all’America) e un esempio da seguire.
In Umbria sono quattro i casi di workers buyout e tra i casi più particolari quello della Stile, che è sfuggita dalle mani di imprenditori stranieri e della Gbm, lasciata dai precedenti proprietari “in eredità” ai dipendenti.

 

Autore

Marina de Ghantuz Cubbe

Nata a Roma il 24 settembre 1989, dopo gli studi classici si laurea in Lettere Moderne all'università La Sapienza di Roma e in Studi storici all'università di Bologna. Ha collaborato con la casa editrice Socialmente della CGIL Emilia Romagna e fa parte dell'associazione Articolo21 per la libertà di informazione.